“Chi naviga sui social – la pancia dell’opinione pubblica – apprende che le assoluzioni decise dai tribunali non godono di buona immagini, mentre i verdetti di condanna vengono salutati come la vittoria della giustizia sul malaffare, la corruzione e il crimine. Siamo colpevolisti in via di principio. Eppure l’abc di uno stato di diritto pretende che le cose stanno esattamente al contrario, che ogni cittadino è innocente fino a prova contrario e che la prova della colpevolezza deve essere trovata dall’accusa. Il pregiudizio di colpevolezza testimonia l’idea che ci siamo fatti del mondo che ci circonda e dimostra quanto “danno” possa fare la percezione della realtà, inquinata, filtrata, addomesticata, manipolata per ragioni buone e meno buone. Quando sono arrivate sulle prime pagine raffiche di assoluzioni – Cota a Torino, alcuni imputati di Mafia Capitale a Roma, tanto per citarne alcune – sui social hanno pianto lacrime amare. Che fiducia nella giustizia si può avere quando si lasciano impuniti i corrotti ed i ladri? Una spia di lassismo o addirittura copertura del malaffare. Se ne ricava, insomma, che una condanna fa giustizia, ed un’assoluzione tradisce la giustizia. Niente di più cervellotico ed ingiusto. Chi ha il dovere di indagare o giudicare, per mestiere, lo fa sulla base degli elementi che sono in suo possesso. Sono quelli che contano e non l’idea personale che si è fatta dell’episodio sottoposto alla sua attenzione. Il libero convincimento del giudice non è scevro da errori di valutazione, ovviamente, ma questo non toglie nulla al fato che la sua funzione è di giudicare sulla base delle prove e degli indizi entrati nel processo. Coloro che discettano sulla buona giustizia o la cattiva giustizia, non hanno studiato il processo, ma si sono fatti un convincimento sulla base della loro percezione dei fatti. È più facile che siano questi ultimi a sbagliare, piuttosto che i giudici che hanno studiato gli elementi in loro possesso. La diversità di vedute può essere giustificata, anche il rammarico per un’assoluzione che riteniamo ingiusta (o una condanna, non cambia nulla), ma è bene ricordare che la verità processuale non è “la verità” assoluta ma relativa, quella che si desume dalle prove portate nel processo. Se le indagini sono lacunose la verità processuale potrebbe essere lontana anni luce da quella reale, ma resta tale. L’esito di un processo non dovrebbe indurci mai perciò ad attribuire un valore etico al verdetto. Il giudizio si forma sulle prove e non sulla percezione dei fatti. In più, le circostanze, il contesto potrebbero avere causato una condanna “giusta” ma immeritata, ed al contrario, suggerito l’assoluzione di un malandrino grazie alla carenza di indizi.”
Nel resto dell’articolo si osserva che le sentenze non possono diventare, non dovrebbe mai accadere, uno strumento di lotta politica. Non solo e non tanto perché PM e giudici, esseri umani fallibili e politicamente “avvertiti”, si fanno guidare dalle loro opinioni e idee, quanto per il fatto che il verdetto non riguarda la sfera morale di un uomo o una donna, ma “quel” fatto giudicato sulla base di “quelle prove”.
Quindi esiste una verità giudiziaria che non sempre corrisponde al giudizio morale o alla verità storica, o alla conoscenza di fatti non dimostrabili processualmente. Nel suo articolo Parlagreco assolve i giudici che si trovano a valutare i fatti di cui dispongono.
Nel suo articolo non si prendono in considerazione alcune cose: Primo, che l’apertura di un procedimento penale è fatta sulla valutazione, in prima battuta, di indizi ai quali si attribuisce una valenza penale da parte del GIP. E quindi questo è un primo passaggio che chiama in ballo la capacità del giudice di aprire il procedimento, che è l’atto iniziale sul quale si scatenano, sempre in prima battuta, le opinioni di colpevolezza. Anche i grillini sono pronti a chiedere le dimissioni per un semplice avviso di garanzia, che è ben lontano dalla sentenza, ma che rappresenta, specie per i personaggi pubblici, la secchiata di fango o di merda, di cui non ci si toglierà più la puzza. E’ quello il momento da cui parte il pre-giudizio di colpevolezza e al quale bisognerebbe prestare attenzione.
È quello il momento in cui partono le strumentalizzazioni e l’indagato entra nella sfera dei cattivi, cioè diventa colpevole sino a quando non è assolto. E quindi è il primo momento in cui la responsabilità del giudice è messa alla prova e andrebbe anche sottoposta a giudizio nel caso le sue aperture d’indagini abbiano motivazioni nelle quali la sfera penale è appena accennata e serve come occasione per richiamare una serie di pre-conclusioni che vanno oltre il penale. Spesso si scambia il peccato con il reato, il pre-giudizio per giudizio, l’opinione per verità assoluta, il pettegolezzo per marchio d’infamia, la parentela per causa lontana o vicina del comportamento del reietto. Si potrebbe continuare a lungo. Esiste poi un altro punto che sfugge a Parlagreco, ed è l’opinabilità del giudizio anche del magistrato giudicante. Non si tratta solo di opinabilità o di soggettività: spesse volte si tratta di amicizie, di spinte sotterranee, di interessi, di opinioni politiche, di prove inquinate o depistate, di deferenza verso il potere, di reticoli sotterranei di contatti che possono trasformare un giudizio di comprovata colpevolezza in un’assoluzione, o di espedienti affini all’assoluzione, come la prescrizione. In questo caso, che in molte occasioni viene rimesso in discussione in appello o in Cassazione se l’imputato ha buoni difensori, o che viene imposto se il reticolo dei giudici cui spetta la sentenza è ben consolidato, non c’è giudice e non c’è giuria che paghi per i suoi errori e non c’è imputato, salvo casi rarissimi che venga pubblicamente riabilitato dalla stessa magistratura che lo aveva condannato ad essere iscritto, come nell’antica Roma, nelle “tavole di proscrizione” o nei pubblici bandi, con le taglie, che una volta erano appesi all’albero o in caserma e che ora vengono sbattuti su tutti i giornali. Con la considerazione finale che i giornali sono lo strumento d’amplificazione delle volontà dei magistrati, rappresentano una pre-condanna molto utile all’apertura dell’iter processuale nel quale l’imputato si troverà irretito senza via di scampo, spesso per decenni. La conclusione è affidata a una poesia di un poeta di fine ottocento che amava firmarsi con lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti, ma che si chiamava Olindo Guerrini. La poesia, molto esplicitamente e senza mezzi termini ricorda “Le leggi umane, le sentenze dotte, il cazzo che le fotte…” e comincia così: “Va per il mondo la giustizia umana – ed è una gran puttana…”, per finire in questo modo:
Guai a chi attende per le vie legali
Vedere il triomfo della sua ragione.
Fidente aspetterà, tranquillo e muto
E resterà….fottuto
Abbiamo deciso da tempo da che parte stare. Non ci servono le sentenze per appurare…
Ci provo, in un prato senza vegetazione, a piantare qualche albero di parole, di sogni…
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