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La propaganda che nega la realtà e chi veramente aiuta gli ultimi. Di ogni latitudine

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La tragedia del Boeing 737

Domenica 10 marzo, ora di pranzo. Irrompe nella tranquillità domenicale la notizia di un disastro aereo in Africa. Un Boeing 737 della Ethiopian Airlines è precipitato 6 minuti dopo essere decollato da Addis Abeba. È una strage, 157 i morti. Tra loro 8 cittadini italiani, tra cui alcune persone impegnate nella cooperazione internazionale. Tre giorni prima la trasmissione televisiva Piazza Pulita ha mandato in onda un’inchiesta di Nello Trocchia che documenta le torture e le atrocità nei lager libici. Esclusa la geografia le due notizie sembrano non avere nulla in comune. E invece basta scorrere i commenti su siti web e social network, soprattutto Facebook, per trovare un altro filo che li unisce. Un filo rosso della vergogna che qualsiasi coscienza civile dovrebbe provare nel leggere. Scorrendo i commenti ai post sulla pagina Facebook di Repubblica si scopre che, appena uscita la prima notizia, qualcuno ha cliccato mi piace al post esultando alla morte di decine e decine di persone africane. E, nelle ore successive, ad ogni post (anche in pochissimi minuti dopo la pubblicazione) i commenti di insulti sono fioriti immediatamente. E, tra un insulto e l’altro, ovviamente non poteva mancare il richiamo al “pensate agli immigrati ma non v’importa nulla di terremotati, anziani, disabili italiani”. Scorrendo le bacheche (alcune, perché tutte ci vorrebbero anni) di chi scrive questi commenti, e seguendo l’attività sui social sulle pagine dei maggiori quotidiani, si nota immediatamente che ogni notizia su migranti, cittadini africani, solidarietà internazionale, è frequentata da un’attività frenetica che non si trova in nessun altro caso. I gracidanti “prima gli italiani” sono, in realtà, i primi a mettere davanti a tutto altro. Affermano che si dovrebbe pensare prima ai “nostri” e poi agli “altri”. Ma gli unici che realmente fanno il contrario sono loro. Qualche tempo fa quest’attività si è concentrata su uno dei preti di frontiera italiano, Nandino Capovilla. In occasione di un incontro a Sacrofano sull’accoglienza, Nandino ha scattato un selfie con papa Bergoglio che esibiva la spilletta “aprite i porti”. La visione della foto ha scatenato una canea infinita, per settimane chiunque si è sentito in dovere di commentare, giudicare, insultare. “I preti pensano solo agli immigrati perché odiano gli italiani”, “il Vaticano lucra sui clandestini e abbandona i poveri italiani” e via discorrendo. Nessuno si è minimamente preoccupato di capire chi fosse quel signore con gli occhiali. Don Nandino è parroco a Marghera e, in realtà, basterebbe seguire le sue attività sui social o entrare nella sua parrocchia per scoprire che le porte sono aperte a cittadini italiani e non, a chiunque molto semplicemente abbia bisogno di un sostegno. Cosa che non scopriremo mai, nella totalità o quasi, delle bacheche dei leoni da tastiera. Dove, oltre alle solite catene strappalacrime e lava coscienza, non si troverà mai nessun riferimento ad azioni concrete per impoveriti, post terremotati, disabili, anziani o altre categorie sociali ed economiche. Ormai da anni la più gettonata è quella delle popolazioni che hanno subito un terremoto. Una delle pagine più drammatiche, e anche più vergognose per quanto accaduto prima e dopo, ha “celebrato” da poco il proprio decennale: il sisma del 6 aprile 2009 a L’Aquila. All’epoca i “prima gli italiani”, “pensate ai terremotati senza casa e che soffrono” erano tutti impegnati ad esaltarsi per le passerelle mediatiche (probabilmente L’Aquila in pochi mesi ha superato ogni record mondiale!), il G8 delle meraviglie e i roboanti progetti. E guai a criticarli, a non applaudire, ad avere un minimo dubbio. I nostri caritatevoli e amorosi “pensate ai terremotati” in pochissimo tempo divennero, ad ogni uscita pubblica dei comitati cittadini, “siete degli ingrati, vergogna vi hanno ricostruito tutto e vi lamentate” (10 anni dopo basta andare a L’Aquila per tastare con mano quanto “tutto” è ricostruito…). Mentre avveniva questo, e nella migliore delle ipotesi si ignoravano completamente le battaglie per la giustizia di parenti delle vittime e comitati, il 31 dicembre 2009 Nandino Capovilla (allora coordinatore nazionale di Pax Christi) era a L’Aquila. Insieme a centinaia di persone sfilò davanti la Casa dello Studente e le vie del centro, accanto ai cittadini che mesi dopo erano ancora fuori e a chi realmente stava mostrando solidarietà e sostegno. Quell’anno Pax Christi decise di spostare la Marcia per la Pace nella città ferita. Due giorni di vicinanza, solidarietà, ma anche di denuncia. Di quel che stava accadendo nella città abruzzese. E nel mondo. Perché la richiesta che venne in quelle ore, la denuncia fortissima, fu quella di impegnarsi per modificare radicalmente un sistema ingiusto, di costruire giustizia e uguaglianza. Perché il sistema socio economico che lucra sui terremoti, sulle disgrazie, che nega diritti e dignità, è lo stesso che scatena guerre (Pax Christi fu qualche mese dopo in prima linea contro la guerra in Libia!), che sfrutta e devasta ad ogni latitudine, che non finanzia stato sociale e ricostruzioni post calamità mentre costruisce armi e le vende anche a Stati in guerra (ma, casualmente, l’odio verso Islam ed extra comunitari di lor signori di fronte ai dollari yemeniti evapora…) e finanziano terroristi e criminali. Garantendosi poi impunità davanti ad ogni crimine e abuso. Ora, torniamo agli insulti e alle accuse che si sono concentrate su Capovilla, Nello Trocchia, i morti della tragedia aerea. Basta rivedere tutto questo alla luce di quanto appena raccontato su L’Aquila (ma potremmo fare molti esempi anche su Amatrice e dintorni e altri casi). Il corto circuito della propaganda e della menzogna è servito. Dopo aver sostenuto le “politiche” di chi ha favorito cricche, impedito ogni diritto e ipotecato il futuro – tra L’Aquila e Amatrice ci fu un altro terremoto di cui nessuno si ricorda, l’Emilia, dove hanno rifiutato il “modello L’Aquila” e gli effetti si vedono – degli aquilani, dopo aver negato la richiesta di giustizia (il processo alla Grandi Rischi è probabilmente l’unico caso che, dopo una indecente distorsione mediatica, ha avuto contro un appello internazionale firmato persino in Giappone) accusano altri di mancata e scarsa solidarietà. Il lupo della favola che accusava l’agnello di sporcare l’acqua a confronto era un pivellino…

Ma tutto questo lo vediamo da anni in azione ad ogni livello. Se ti schieravi contro la guerra in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia eri un amico dei dittatori. Le guerre si sono scatenate, hanno devastato, aumentato l’insicurezza mondiale. E ora, massacrata ogni opposizione sociale e politica, i “prima gli italiani” rovesciano il tavolo e accusano gli altri di quel che hanno sempre fatto loro. Sfruttando la scarsa, se non nulla, memoria. Che, dimentica gli “scaloni” di Maroni, la deforma costituzionale di Berlusconi, Bossi e Fini, i decreti sull’immigrazione di Maroni del 2011, gli attacchi all’articolo 18 fatti partire sempre dalla suddetta triplice a inizi Anni Duemila.

Sulla Libia negare è impossibile, ma le loro menzogne lo fanno

Un’altra reazione all’inchiesta di Nello Trocchia sui lager libici è stata quella di negare, affermare che era tutto falso e che non veniva documentato nulla. Potevano essere attori o video girati ovunque il refrain. Sarebbe bastato vedere tutto il reportage, seguire la messa in onda per capire quanto viene documentato tutto il documentabile, in maniera incontrovertibile. Ma i “prima gli italiani” al massimo leggono i titoli, dovessero mai imbattersi nella realtà e scoprire di avere un briciolo di umanità… oltre i soliti pseudo-complottisti d’accatto, le accuse negli anni sono partite tutte da alcune foto – diffuse da Avvenire che poi ha onestamente ammesso l’errore – che in realtà provenivano dal Brasile. Alcune foto che, se la matematica non è un’opinione, vengono letteralmente sommerse da migliaia e migliaia di altri documenti. Foto, video, testimonianze da svariate fonti. Alla vigilia di ferragosto del 2017 la CNN ha pubblicato un’inchiesta su quel che accade ai migranti giunta in Libia e che non possono pagarsi il viaggio verso l’Europa. L’inchiesta è ancora disponibile QUI. Migranti venduti all’asta ai trafficanti. 1200 dinari libici, 750 euro circa, il prezzo medio del destino dei più disperati tra i disperati. I reporter del network statunitense avevano assistito di persona ad un’asta, in poco più di 6 minuti  almeno 12 persone avevano visto il loro destino finire nelle mani dei trafficanti. Nelle aste documentate nel video i migranti sono stati “venduti” come “ragazzi forti per lavori agricoli” o “scavatori”. Cancellata ogni dignità, ogni umanità, considerati come attrezzi e macchine. Gli inviati della CNN dopo l’asta hanno raccontato di aver provato ad intervistare due persone “vendute” all’asta ma per i traumi subiti non riuscivano a parlare. Quattro mesi prima denunce analoghe erano già arrivate dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Monica Chirac, funzionaria dell’Organizzazione in Niger, riportò che molti migranti raccontavano di essere stati venduti in Libia. Racconti in aumento nei mesi precedenti. Testimonianze costanti di violenti abusi, percosse, stupri, torture. Fino ad alcuni che hanno raccontato di persone cosparse di benzina e date alle fiamme, altri a cui hanno sparato o solo stati lasciati morire di fame. Crimini che avvengono anche nelle carceri. Secondo quanto documentato dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni il 70% delle persone che giungono in Europa sono state vittime del traffico di organi, il 6% degli intervistati nei sei mesi della ricerca ha affermato di essere stato in contatto con  qualcuno costretto a farsi prelevare sangue o a pagare parte del viaggio con un organo. Già nel 2008 “Come un uomo sulla Terra” aveva documentato una realtà terribile e disumana. Il viaggio di Dagmawi, studente di Giurisprudenza ad Addis Abeba dalla quale decide di emigrare davanti alla durissima repressione politica, che sarà testimone e vittima di violenze e abusi dei trafficanti e della polizia libica. Torture, stupri, arresti arbitrari.

Il 10 ottobre 2016, la Corte d’Assise di Milano ha condannato il somalo Matammud Osman a 3 anni per omicidio, sequestro di persona in concorso e continuato a scopo estorsivo e violenza sessuale aggravata. Secondo la sentenza Osman, componente di un’organizzazione che gestiva un campo a Beni Walid in Libia, avrebbe sequestrato e torturato moltissimi suoi connazionali (quattro morti per le conseguenze). Fatti avvenuti tra il 2015 e il settembre dell’anno successivo.

Una missione ONU in Libia, a dicembre 2016 accertò che la maggior parte dei 34 centri di detenzione presenti erano veri e propri lager. E dove i trafficanti agiscono liberamente con la complicità di funzionari e polizia libica. Alcune donne, prima di entrare in Libia, davanti all’altissimo rischio di stupri assumono enormi dosi di anticoncezionali. Cercano così di evitare gravidanze ma si procurano danni irreversibili all’organismo. Dopo aver visitato alcuni di questi centri, il commissario ONU per i rifugiati Filippo Grandi non nascose di essere rientrato a dir poco scioccato per quel che aveva riscontrato.

Un’inchiesta della giornalista internazionale Nancy Porsia (collaboratrice tra gli altri di varie testate italiane, del Guardian, di The Post Internazionale e della Radio Televisione Svizzera) del febbraio 2017 evidenziò la figura chiave nel traffico di esseri umani del capo della guardia costiera a Zawiya, Abdurahman Al Milad Aka Bija, accusato di avere legami con le milizie di Tripoli che portano i migranti dal Sahara alla costa, prima che siano imbarcati verso l’Italia. Accuse ribadite 2 mesi dopo anche dall’OIM. Il porto della città è lo snodo centrale di tutta la costa occidentale libica per i traffici di esseri umani e di petrolio. Mentre le forze militari europee schierate in mare, denuncia la Porsia, “stanno chiudendo un occhio” solo il traffico di carburanti vale 10 milioni di euro. E “negli ultimi due anni – leggiamo nell’inchiesta – le milizie hanno infiltrato l’amministrazione della raffineria qui, e anche della guardia costiera”. Denunce simili sempre a febbraio vennero da un reportage de l’Espresso in collaborazione con l’Unicef. “Ci sono guardie costiere che recuperano i migranti in mare e li vendono alle milizie che li trasportano nelle prigioni illegali. I migranti sono i bancomat di questo Paese. L’Europa vede, ne è consapevole, eppure ha preferito spostare il problema sulle nostre spalle anziché farsene carico. Preferisce non vedere i morti”, leggiamo nel reportage dove si riporta la denuncia di un poliziotto locale sulla brigata Sharikan, una delle più potenti a Tripoli: “fingono di arrestare i migranti clandestini e li tengono nei loro centri, senza cibo e senza acqua, prendono loro i soldi, li sfruttano, abusano delle donne e poi li trasportano nella zona di Garabulli per farli partire con i gommoni, con la complicità di parte della guardia costiera”.

Un video amatoriale pubblicato da Times pochi giorni prima, documentò le violenze sui migranti intercettati in mare e riportati in Libia. Nel video si vede addirittura Al Bija frustare  alcuni migranti con una corda. I trafficanti che non pagano una quota ad Al Bija vengono fermati dalla Guardia Costiera e le loro barche requisite.

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Alessio Di Florio

Militante comunista libertario e attivista eco-pacifista, collaboratore di Wordnews.it e referente abruzzese dell’Associazione Antimafie Rita Atria e di PeaceLink, Telematica per la Pace. Collabora con Pressenza, Giustizia.info, QcodeMagazine, Comune-Info e altri siti web. Autore di articoli, dossier e approfondimenti sulle mafie in Abruzzo, a partire da mercato degli stupefacenti, ciclo dei rifiuti e "rotta adriatica" del clan dei Casalesi, ciclo del cemento, post terremoto a L'Aquila, e sui loro violenti tentativi di dominio territoriale da anni con attentati, intimidazioni, incendi, bombe con cui le mafie mandano messaggi e tentano di "marcare" la propria presenza in alcune zone, neofascismo, diritti civili, denunce ambientali tra cui tutela coste, speculazione edilizia, rischio industriale e direttive Seveso.

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