Io qualcosa da dirti ce l’avrei. Ti ho visto per la prima volta in Tribunale. Avevamo udienza alle 9:00 e sei arrivata solo alle 12:00. Ti facevi avanti circondata dalle tue guardie del corpo con il trucco ben fatto e il capello curato nei minimi particolari. Dai tuoi occhi usciva il fuoco dell’arroganza e della superbia. Eri il giudice supremo e tutti gli altri non contavano un cazzo, erano solo carne da macello, numeri da usare per la propaganda dei sequestri e delle confische alla “mafia”, patrimoni da spolpare e opportunità di lavoro per i raccomandati. Ti scocciava venire alle udienze. Infatti, nel momento stesso del sequestro, avevi già deciso di confiscare tutto. Le perizie e i processi servivano solo per prendere tempo e portare avanti il più possibile la mangiatoia. Quando prendevano la parola gli avvocati per spiegare le ragioni dei propri assistiti, facevi i disegnini su un pezzo di carta. Trattavi gli avvocati come se fossero collusi con i loro clienti. Forse eri temuta perché, con una semplice parola, avresti potuto segnare la fine della loro carriera, almeno al Tribunale di Palermo. Gli imprenditori mafiosi non erano quelli condannati per mafia. Erano coloro che in Sicilia riuscivano a creare lavoro e ricchezza. Tutti questi dovevano essere perseguitati, i loro beni spartiti a persone senza alcuna esperienza o competenza specifica. I lavoratori erano quantomeno complici e meritavano di essere licenziati e sostituiti con le persone di comprovata fiducia. Era inammissibile per te che dei lavoratori umili con la terza media diventassero imprenditori di successo. La giustificazione non poteva che essere la mafia. Voi, invece, con tre lauree e altrettanti master avete distrutto tutto. Noi con l’umiltà, il lavoro e il rispetto degli altri avevamo creato.
Ci hai tolto tutto: l’azienda, il lavoro, la casa e la libertà. Nonostante la nostra innocenza fosse scolpita in una sentenza passata in giudicato, hai ritenuto che tutto il nostro patrimonio fosse il frutto di un reato che non esiste. Poi, siccome non eri contenta, hai colpito anche noi figli che stavamo provando con il duro lavoro a riprendere in mano le redini del nostro futuro dopo che tu avevi distrutto il passato della nostra famiglia. E, siccome, attraverso di noi eravate arrivati fino all’Italgas, per salvare la vostra credibilità, avevate deciso di confiscare la nostra azienda, senza neanche avere letto la perizia che voi stessi avevate disposto. Insieme a Licata, ti eri messa d’accordo con il Pubblico Ministero per fare acquisire le “prove” che avrebbero portato alla nostra confisca. Non era questo il tuo compito. Dovevi giudicare con imparzialità e, invece, ti sei messa d’accordo con una delle parti per fottere l’altra.
Ti difendi dicendo che non eri sola a fare i sequestri o a dare gli incarichi. Vero. Chi erano gli altri? Fabio Licata, già condannato in primo grado, lo stesso che spiegava nei convegni che le indagini si fanno dopo il sequestro? Lorenzo Chiaramonte, lo stesso che vi segnalava il compagno (o l’amante) al quale il collegio da te presieduto dava gli incarichi di amministratore giudiziario? Fortuna che vi hanno fermati! Chi è venuto dopo di voi ha letto le carte e ci ha consegnato i debiti fatti dall’amministratore giudiziario che tu e i tuoi colleghi avevate nominato e assecondato in tutte le sue scelte sciagurate.
La seconda volta ti ho vista al Tribunale di Caltanissetta, non più nella veste di Dio in terra ma, dopo essere caduta dal Cielo, semplicemente come imputato. Il capello e il trucco erano sempre impeccabili. Schiumavi rabbia come un leone ferito. Non ti rendevi conto di essere tu sotto accusa e ti comportavi come quando eri a capo della Sezione, fino addirittura ad intimidire velatamente e attaccare il Pubblico Ministero che ti accusava. Questa volta ti sei accorta di me e hai fatto finta di niente. Tu non stai provando neanche lontanamente la sofferenza che voi avete fatto provare a tante famiglie. Tu hai la garanzia di un giudice imparziale, non sei stata privata della libertà personale in attesa di un processo penale in cui vale la presunzione di innocenza. I nostri padri, senza prove, sono stati arrestati e, dopo due anni e mezzo, scarcerati con una pacca sulle spalle. L’assoluzione definitiva sarebbe arrivata solo 12 anni dopo. Per gli stessi fatti li avete crocifissi in un processo farsa in cui vale la presunzione di colpevolezza e, prima di quel processo, gli avete tolto ogni mezzo di sostentamento. Dopo 11 anni, avete confiscato tutto, pur di non ammettere di esservi sbagliati.
Spendevate 15 mila euro al mese, fra ristoranti, vestiti alla moda e villa a Mondello per il figlioletto. Avevi una ricca vita sociale e in udienza andavi avendo sempre cura di non fare troppo presto perché tanto la gente poteva aspettare. La vostra principale fonte di reddito erano le amministrazioni giudiziarie. Tuo marito prendeva incarichi ad affidamento diretto perché era una persona affidabile. Noi alle 6 eravamo in cantiere a buttare il sangue e il sudore insieme agli operai sotto il sole oppure al gelo, si risparmiava per rientrare nei conti, si mangiava un pezzo di pane sul marciapiede o sopra i mezzi d’opera e la sera eravamo a tal punto stanchi che non potevamo fare altro che andare a letto, talvolta senza neanche mangiare. I lavori si prendevano, quando capitava, solo dietro gara di appalto, senza raccomandazioni e nel rispetto della legalità. Altro che festini e uscite con gli amici. Per noi non c’erano fragole con la panna, dolcetti da Costa, uscite con le amiche sull’auto blindata o aperitivi pomeridiani con il Prefetto. C’era solo la polvere e la terra del cantiere e la responsabilità di portare avanti un lavoro con tutte le difficoltà del mondo, per rispettare le scadenze del committente, per onorare gli impegni coi fornitori, per la nostra sopravvivenza e per quella dei nostri collaboratori. I tuoi figli facevano la bella vita, spendevano a destra e a sinistra. E noi, appena finita la scuola, fin da piccoli andavamo a uscire la terra dal fosso e queste erano le nostre vacanze perché c’era bisogno di lavorare. Così si capisce il valore dei soldi e dei sacrifici. Ma di tutte queste cose voi che cosa ne sapete? Ora, dopo 60 anni di lavoro, ci ritroviamo senza una casa e siamo ridotti a fare i conti dei contributi versati per capire se i padri hanno il diritto di andare in pensione.
Quale mafia hai combattuto? Sapevi dove la mafia vera aveva nascosto i beni e, per paura, noi sei intervenuta. Meglio colpire il Cavallotti di turno che tanto mafioso non è e che non si potrà mai rivalere con la violenza. Tu sei madre, moglie e figlia. Come hai potuto infliggere tutte queste sofferenze a centinaia di figli, di mamme e di mogli?
Ti vedo ora in televisione, invecchiata di almeno dieci anni, con il volto sciupato, sofferente e trascurato. Sei diventata il parafulmine. Attaccano te per difendere un sistema che non hai creato tu e al quale la stampa ha dato il tuo nome solo per nascondere una verità sconcertante che potrebbe rimettere in discussione trent’anni di misure di prevenzione. Le persone che venivano da te a chiederti i favori ti hanno rinnegata. Ti chiamavano “regina” e ti trattavano come tale. E, come quando cadono i peggiori regimi, tutti coloro che prima ne avevano tratto vantaggio, si dileguano. Eppure, nonostante tutto, non provo nessuna soddisfazione o piacere. Provo solo compassione. Tu potrai vincere tutti i processi ma hai già perso qualcosa di più importante, qualcosa che, forse, non hai mai avuto: il rispetto della dignità inviolabile delle persone. Per quanto mi riguarda, noi abbiamo vinto come uomini nella misura in cui non ci siamo mai arresi, nella misura in cui abbiamo trovato la forza di rialzarci e di non mollare dopo che voi ci avevate spezzato le gambe. Continueremo a difenderci e, se i giudici italiani non avranno il coraggio di ammettere gli errori commessi, lo farà la Corte Europea. Quando questo avverrà – perché avverrà – sarà una grande gioia per tutti coloro che credono nella giustizia senza vederla e una immensa vergogna per quello Stato sordo e cieco che continua a coprire gli abusi commessi da qualcuno nel nome della lotta alla “mafia”.
Pietro Cavallotti
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