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In un articolo del giornale americano The New Yorker errori, poteri, limiti della giustizia italiana

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Il procuratore Lari teme per la sua vita.

Il prestigioso giornale americano The New Yorker, nel numero uscito lunedì pubblica una lunga inchiesta che parte dal caso giudiziario di uno scambio di persona e si allarga poi ad alcune considerazioni sulla giustizia italiana, sull’antimafia, sull’immigrazione e sugli enormi strumenti di cui dispongono i magistrati e sul modo in cui l’amministrano: una delle cose più devastanti è l’affermazione della giornalista svedese Estefanos: «Non credo che interessi loro la verità. Preferiscono condannare un innocente piuttosto che ammettere di essersi sbagliati». Il giudizio riguarda lo scambio di persona in un processo siciliano, di tal Medhanie Tesfamariam Berhe che sarebbe stato scambiato, a causa dello stesso cognome, con Medhanie Yehdego M’eredi accusato di essere uno dei capi del traffico di migranti, e di avere imbarcato almeno 13 mila migranti, ma si estende su tutto il “modus operandi” dei giudici. In evidenza il rapporto tra giudici e giornalisti, che spesso sono improntati a una totale sudditanza dei giornalisti alle direttive dei giudici, i quali forniscono il materiale e le intercettazioni utili a trasmettere la direzione di un’indagine e una preordinata indicazione del colpevole: per contro, nei pochi casi di giornalisti ribelli o autonomi non mancano intimidazioni e minacce, come racconta il giornalista Piero Messina, che sarebbe indagato per avere trasmesso il testo di una telefonata di Crocetta. In alcuni casi si arriva anche a intercettare il telefono del giornalista e ad esercitare su di lui pressioni e ricatti.

L’estensore dell’articolo, Ben Taub, si meraviglia “delle libertà investigative dei pm italiani, abituati a indagare chiunque con pochissimi vincoli e poca trasparenza, e dall’uso esagerato delle intercettazioni telefoniche: «Anche se devono essere approvate da un giudice, ci sono molti modi per aggirare le regole», scrive Taub citando l’esempio che gli ha raccontato un agente di polizia di «mettere in una lista di numeri da sorvegliare per un’indagine legittima, un numero che non dovrebbe esserci e che si vuole controllare».

Taub nota che è un’abitudine dei magistrati e dei giornalisti a loro legati negare che la mafia siciliana sia ritenuta oggi assai più debole, «per conservare una percezione pubblica eroica del loro lavoro». Inevitabile il riferimento al caso, quasi ignorato dalla stampa italiana, del magistrato Silvana Saguto, oggi sotto processo per la sua criminale gestione dei beni sequestrati da parte della procura di Caltanissetta, di cui è procuratore capo Sergio Lari, responsabile anche  della seconda inchiesta sulla strage di via D’Amelio che ha svelato la falsificazione della prima indagine. “Il giudice Saguto era considerata una sorta di Falcone della Sezione misure di prevenzione e si presentava come una specie di eroina” dice Lari, che parla di «mafia dell’antimafia» e dice di essersi fatto molti nemici negli ambienti politici e giudiziari siciliani: «Prima mi odiava la mafia. Ora l’antimafia. Un giorno mi troverete morto per strada e nessuno vi dirà chi è stato».

L’affermazione di Lari apre scenari inquietanti su tutto quello che c’è sotto tra chi osa toccare o criticare l’operato di un magistrato, tra le lotte intestine tra i vari magistrati, e tra le varie procure, tipiche non solo al tempo di Falcone, e tra eventuali protezioni reciproche nel caso ci siano da individuare presunti colpevoli di lesa maestà o “gole profonde” che hanno messo l’occhio dove non si doveva guardare.

Al Procuratore Lari l’invito convinto a continuare nel suo lavoro, a partire dal principio che la denuncia di alcune situazioni critiche della magistratura non vuol dire la denuncia dell’operato di tutta la magistratura, ma di una parte malata di essa, che va rimessa in discussione, proprio perché la giustizia funzioni  “giustamente”, sia per chi è chiamato ad amministrarla, sia per chi è sottoposto al suo operato nella qualità di imputato. Il rischio c’è, ma bisogna inevitabilmente metterlo sul conto, specie per chi vuol fare il lavoro del magistrato senza guardare in faccia nessuno: Diceva Falcone: “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno.”

Ecco il testo dell’intervista di Ben Taub, su The New Yorker, che ancora non circola in Italia, tradotto da Lorenzo Sorrentino di Telejato Notizie, per quella parte che riguarda le affermazioni del procuratore Lari

Un pomeriggio a Palermo, pranzai con Francesco Viviano, un 64enne reporter investigativo siciliano che afferma di essere stato intercettato, ricercato o interrogato dalle autorità “ottanta o novanta volte”. Dopo aver denunciato per decenni i modi in cui la mafia influenza la vita siciliana, Viviano ha poca pazienza con i crociati dell’antimafia che sfruttano la reputazione storica di Cosa Nostra al fine di sostenere la propria. “La mafia non è completamente finita, ma è stata distrutta,” dice. “Esiste al dieci o venti per cento del suo precedente potere. Ma se chiedi ai magistrati ti diranno “No, è al duecento per cento,” per inquadrare come eroica la percezione pubblica del loro lavoro. Elenca parecchie figure pubbliche le cui posizioni antimafia dissimulano un comportamento privato privo di scrupoli. “Pensano di essere Falcone e Borsellino,” dice. Nei decenni recenti, la divisione antimafia di Palermo ha funzionato da tramite per le posizioni nella politica italiana ed europea.

Nel dicembre 2014, Sergio Lari, un magistrato della città siciliana di Caltanissetta, che aveva lavorato con Falcone e Borsellino e risolto l’assassinio Borsellino, veniva candidato per la posizione di procuratore capo a Palermo. Ma Francesco Lo Voi, un candidato con meno esperienza, veniva designato per l’incarico.

L’anno seguente, Lari inizia ad investigare su una concessionaria di auto usate nella Sicilia meridionale. Scopre che quei veicoli provenivano da una concessionaria a Palermo confiscata dallo Stato perché aveva legami con la mafia. Lari informa l’ufficio di Lo Voi, che inizia ad intercettare i sospetti e apprende che il piano riportava ad un giudice che lavorava nella magistratura di Palermo: Silvana Saguto, capo dell’ufficio dei beni confiscati alla mafia.

“Il giudice Saguto era considerata la Falcone dei sequestri della mafia,” mi dice Lari.

“Era su tutti i giornali. Emergeva come una specie di eroina”. La squadra di Lari iniziò a intercettare la linea della Saguto. La Saguto venne informata, e lei e i suoi colleghi smisero di parlare al telefono. “A questo punto dovetti prendere una decisione sofferta,” dice Lari. “Dovetti mandare i miei uomini in borghese, nel mezzo della notte, nel Palazzo di Giustizia di Palermo, per piazzare una cimice negli uffici dei magistrati. Era qualcosa che non era mai stato fatto in Italia”.

Larri e la sua squadra scoprirono un ampio giro di corruzione, che risultava in almeno venti accuse. Tra i sospetti ci sono cinque giudici, un pm antimafia, e un funzionario della Direzione Investigativa antimafia. La Saguto fu accusata di sequestrare attività in circostanze sospette, nominando parenti come amministratori, intascando i guadagni delle attività o distribuendoli tra colleghi, familiari ed amici.

In un caso, secondo l’atto d’accusa di 1200 pagine di Lari, la Saguto usava i beni sottratti alla mafia per pagare il professore di suo figlio affinché gli facesse superare gli esami.

(La Saguto ha negato tutte le accuse; i suoi avvocati hanno affermato che lei “non ha mai preso un euro”). Lari si rifiuta di parlarmi degli altri pm nell’ufficio della magistratura di Palermo, ma l’agente di polizia dell’intelligence mi disse che “almeno la metà di loro non poteva dire di non sapere del disegno. Lari dice che la Saguto stava dirigendo “una mafia dell’antimafia” dal suo ufficio al Palazzo di Giustizia. A eccezione di Lari, tutti i pm che lavorarono con Falcone e Borsellino sono in pensione o morti. L’indagine sulla Saguto ha procurato a Lari molti nemici nei circoli politici e giudiziari siciliani, ha detto. “Prima, i mafiosi mi odiavano. Adesso sono gli antimafiosi. Un giorno, mi troverete morto in strada, e nessuno vi dirà chi è stato”.

Nota di redazione del 2 agosto 2017

Il procuratore Lari: “Scherzavo”.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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