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In memoria di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, a 36 anni dall’omicidio

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Due maggio 1982

Tra quei centomila che parteciparono al funerale di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, in Piazza Politeama c’ero anch’io. Una domenica calda. Arrivarono tutti, quelli in giacca e cravatta e quelli in abito da lavoratori, giovani in jeans e camicia e vecchi militanti con la coppola e il fazzoletto rosso: ce n’erano tanti, uomini politici da passerella, deputati nazionali e regionali, persino i vertici più alti dello stato, da Sandro Pertini, a Spadolini, a Nilde Jotti. Non ho mai amato mischiarmi tra la folla. Rimasi in periferia, dove mi sentivo a mio agio tra i compagni che piangevano e che manifestavano una rabbia a stento era frenata dall’ordine che il partito aveva dato, cioè di starsene buoni, di evitare manifestazioni ed espressioni di violenza, o come diceva ipocritamente qualcuno, di rispettare le ultime scelte politiche di Pio, che erano state quelle della “pace”. Di pace non ce n’era molta, il fuoco covava sotto le ceneri. Ero convinto che sarebbe divampato, che poteva essere il momento giusto per liberare Palermo e la regione dagli assassini mafiosi e dai loro complici che si aggiravano sopra e sotto il palco. Intravidi persino tra le tasche di qualche compagno segnali di corpi estranei. Bastava una parola e tutto avrebbe potuto esplodere. Quella parola non ci fu: il discorso soporifero di Berlinguer servì solo a raffreddare gli animi, a condurre il dolore dentro l’alveo istituzionale, dentro la gabbia delle regole, in cui potevano parlare solo le autorità per pronunciare le loro formali condanne e la loro pelosa solidarietà, sapendo che il giorno dopo tutto sarebbe tornato come prima.

Una frase ricordo di quel discorso, dove il ricordo era andato ai 35 anni della strage di Portella della Ginestra, ricordati il giorno prima e ai sindacalisti uccisi nel ventennio 1946-48: “Essi furono sconfitti e saremo ancora sconfitti se quella lotta non diventerà lotta di popolo”. Pensavo amaramente che quella sconfitta era stato il risultato della nostra Resistenza fatta senza armi, ma solo per chiedere l’applicazione delle leggi dello stato sulla distribuzione delle terre incolte. Pensavo a Placido Rizzotto, che qualche tentazione di organizzazione militare dei contadini l’aveva avuta, pensavo a Pio La Torre che di Rizzotto si ritrovò a ricevere la pesante eredità a Corleone e a tutta la sua lunga strada a metà tra il contatto con la gente e il rapporto istituzionale. Pensavo a Cesare Terranova massacrato tre anni prima dagli sgherri di Luciano Liggio: Terranova aveva firmato, con Pio La Torre la relazione di minoranza della commissione Antimafia nel 1976: quando mi capitò tra le mani quel libro pubblicato da Editori Riuniti fu per me l’aprirsi di un baratro di orrori, di impensabili intrecci: era una radiografia della premiata VA.LI.GIO, ovvero dell’associazione mafiosa tra Vassallo, Lima e Gioia, in combutta con Cassina, con la Consedil, con la Lesca dello stesso Cassina autentici padroni di Palermo, assieme ad altri loschi figuri come Ciancimino, o Giovanni Matta che, pur sedendo in Commissione Antimafia dichiarava che “la mafia non esiste, ma si tratta solo di delinquenza comune”. Quella relazione è senz’altro un pilastro nella storia di una parte dello stato, quella dell’opposizione comunista che getta uno sguardo su tutti gli anelli che legavano il potere politico mafioso. Restai impressionato dal numero incredibile di scuole di cui era proprietario Vassallo, il quale li affittava al Comune e alla provincia dopo averle appositamente costruite. Di quel libro leggevo interi capitoli quando a Radio Aut mi capitava di dovere tappare i buchi del palinsesto programmato. Quando cominciò a parlare Salvo D’Acquisto presidente della Regione, capii che non avevo più cosa fare e assieme ad altri mesti compagni cominciai a prendere la via del ritorno mentre egli citava Piersanti Mattarella, trucidato per essere andato dietro all’illusione di riformare il suo partito, autentico covo di serpi.

Chi era la Torre?

Chi era oltre che un sindacalista e un attento politico comunista? Era nato il 24 dicembre 1927 nella frazione di Altarello di Baida del comune di Palermo da una famiglia di contadini molto povera: il padre palermitano e la madre figlia di un pastore di Muro Lucano (PZ). Giovanissimo, lottando con i braccianti nella Confederterra era finito in carcere. Nel 1952 era diventato segretario provinciale della CGIL Palermo e qualche anno prima nel 1949, frequentando il Partito Comunista aveva conosciuto Giuseppina Zacco, che aveva sposato un anno dopo e che gli aveva dato due figli, Filippo e Franco. Di lui è rimasta la firma assieme a quella del democristiano Rognoni, sulle nuove “Disposizioni contro la mafia” che introducevano un nuovo articolo nel codice penale, il 416 bis: un passaggio fondamentale per attivare nuovi strumenti nella lotta contro la mafia, sino ad allora non riconosciuta come associazione illegale. L’associazione mafiosa diventava reato punibile con una pena da tre a sei anni per i membri, e da quattro a dieci nel caso di gruppo armato, mentre gli affiliati avrebbero dovuto decadere da eventuali incarichi civili e politici: soprattutto si prevedeva la confisca obbligatoria dei beni realizzati con attività criminali perpetrate dagli arrestati. Dopo varie esperienze parlamentari, in tre legislature, La Torre era tornato in Sicilia, un po’ per sua scelta, un po’ per scelta di partito e, pur non dimenticando che il primo elemento causa della mancanza di libertà dei siciliani era la mafia, aveva individuato l’altro elemento, la presenza degli Americani, che, dai tempi dello sbarco alleato non aveva smesso di considerare la Sicilia come un feudo personale, come una sorta di proprietà privata in cui installare micidiali missili per mantenere il controllo del Mediterraneo o mostruosi apparecchi di controllo di qualsiasi comunicazione. La Torre aveva provato a spostare la montagna prima con la raccolta di un milione di firme e poi con una grande manifestazione a Comiso, il luogo e l’epicentro del potere militare americano. Era nel bel mezzo di questo nuovo fronte di lotta quando il 30 aprile del 1982, alle nove del mattino la Torre, accompagnato dal suo autista Rosario Di Salvo, mentre stava andando con la sua Fiat 132 verso la sede del partito, in via Turba, di fronte alla caserma Sole, fu affiancato da due grosse moto e alcuni uomini mascherati con il casco e armati di pistole e mitragliette li uccisero. La Torre morì subito, Di Salvo riuscì ad estrarre la pistola e sparare alcuni colpi. Dalle rivelazioni di Salvatore Cucuzza, diventato collaboratore di giustizia, è stato ricostruito il quadro dei mandanti, identificati nei boss Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Antonino Geraci, detto Nenè e i nomi degli esecutori Giuseppe Lucchese, Nino Madonna, Salvatore Cucuzza, e Pino Greco.

L’aeroporto

Il 30 aprile 2007 venne intitolato a Pio La Torre, dalla giunta di centrosinistra, il nuovo aeroporto di Comiso (inaugurato il 30 maggio 2013). Nell’agosto del 2008, la nuova giunta di centrodestra guidata dal sindaco Giuseppe Alfano decide di togliere l’intitolazione a La Torre per tornare a quella precedente di “Generale Magliocco”, un generale del periodo fascista distintosi nella guerra colonialista d’Etiopia. Dopo una ben partecipata petizione, promossa dal Centro Studi Pio La Torre, il 7 giugno 2014 ha avuto luogo la cerimonia di reintitolazione a Pio La Torre, decisa dall’amministrazione comunale.

L’autogoverno popolare

La Torre è stato uno degli uomini politici siciliani ai quali va tutto il rispetto e l’ammirazione per la fedeltà alle sue idee e a quelle del comunismo, per la sua profonda conoscenza del fenomeno mafioso e per la sua capacità di spaziare in un orizzonte più vasto per fare del Mediterraneo un mare di pace. In questo suo pensiero è racchiuso il senso della sua battaglia: “Se si vuole assestare un colpo decisivo alla potenza della mafia occorre debellare il sistema di potere clientelare attraverso lo sviluppo della democrazia, promuovendo la mobilitazione unitaria dei lavoratori, l’autogoverno popolare e la partecipazione dei cittadini al funzionamento delle istituzioni democratiche”.

Pietro Grasso, già presidente del senato, ha detto: “Ne avessimo oggi politici così. Pio La Torre era prima di tutto un siciliano che ha amato fino in fondo la sua terra”.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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