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Il Villaggio Kartibubbo prossimo alla chiusura

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Quella del Villaggio Kartibubbo è una storia in parte nota e riguarda un villaggio turistico costruito negli anni ’70, comprendente 350 proprietari privati e 150 multiproprietari. Parte delle aree, comprendente lo sporting, la piazzetta, i locali commerciali, la palazzina degli uffici, l’area meeting più altri 24 appartamenti a Baia del Faro appartengono al demanio statale.

Nel 2014 l’ufficio Misure di Prevenzione del tribunale di Trapani dispone il sequestro giudiziario di una sessantina di camere diffuse, di due appartamenti e una villetta, il tutto pari a circa il 5% dell’insieme. Al costruttore Calcedonio Di Giovanni vengono ipotizzati collegamenti con le cosche mafiose della zona e soprattutto con Vito Roberto Palazzolo, il quale nella sua condizione di titolare di una società tedesca, la Corporation Park, avrebbe venduto i terreni e il progetto di un villaggio a Calcedonio Di Giovanni, che avrebbe dato in permuta alcuni appartamenti e realizzato poi la megastruttura. Il giudice Piero Grillo, titolare dell’Ufficio Misure di Prevenzione, ha ipotizzato che dietro la costruzione del villaggio ci fossero i soldi di Vito Roberto Palazzolo, ritenuto uno dei cassieri della mafia, e che Di Giovanni avrebbe agito al servizio e per conto dei mafiosi di Mazara del Vallo, primo fra tutti Mariano Agate, che risulta intestatario di uno degli appartamenti del villaggio Kartibubbo, mentre altri tre 3 immobili sarebbero intestati a mafiosi della stessa cosca. Nella sentenza Di Giovanni è descritto come un «imprenditore spregiudicato» in rapporti anche con la mafia di Castelvetrano, in particolare con Filippo Guttadauro, cognato di Matteo Messina Denaro, e con la mafia corleonese attraverso Pino Mandalari, commercialista di una serie di mafiosi, primo dei quali Totò Riina. «Di Giovanni – secondo il collaboratore di giustizia, adesso deceduto, Rosario Spatola – è un massone e sostanzialmente il prestanome di Mariano Agate, di Giovanni Bastone, ma soprattutto di Toto’ Riina». Di Giovanni non ha sconfessato tali conoscenze, anzi ha dichiarato di avere incontrato Mandalari nel momento in cui costui stava dandosi da fare per creare alcuni circoli di Forza Italia a Palermo. «L’esistenza di collegamenti fra mafia, massoneria trasuda – si legge nel provvedimento – da tutti gli atti di questo procedimento nella parte in cui viene in ballo il ruolo degli istituti di credito preposti al controllo dell’avanzamento dei lavori finanziati. Vennero erogate immense quantità di denaro in assenza totale di controlli e qualche volta con la chiara dimostrazione agli atti dell’assenza dei presupposti per continuare a finanziare l’opera».

In realtà Mariano Agate ha acquistato l’appartamento a Kartibubbo dal dott. Parisi, di Torino, che l’aveva acquistato in precedenza, mentre l’altro mafioso citato, Burzotta, avrebbe avuto la disponibilità di un monovano, intestato alla moglie di Di Giovanni, del quale non era stato definito il contratto di vendita. Circa i rapporti con la massoneria, Di Giovanni se n’è sempre dichiarato estraneo, così come per i rapporti con la mafia. In realtà non esiste alcun procedimento penale con l’accusa di associazione mafiosa, nei suoi confronti, ma esistono una quindicina di provvedimenti  per lottizzazioni abusive, truffa all’erario ecc.

All’epoca della truffa allo Stato, i beni di Di Giovanni subirono un primo sequestro giudiziario, che venne dato in amministrazione ad Andrea Dara. Per i due anni di amministrazione (2007-2009) Dara avrebbe chiesto e ottenuto un compenso di 900 mila euro. Per contro, il patrimonio di Di Giovanni, stimato in 450 milioni di euro, veniva affidato agli amministratori giudiziari Miserendino, Paderni e successivamente Aiello. Anche qua si è andati incontro a un grosso equivoco, ovvero che tutto il villaggio Kartibubbo sarebbe stato sequestrato, mentre, per contro erano sotto sequestro solo una parte minima, appartenendo il resto a proprietari privati, tutti con regolare contratto d’acquisto. Così un intero gruppo di proprietari si è vista cadere addosso l’accusa di essere “in odor di mafia”.  

In realtà a Di Giovanni, anzi, per esattezza a sua moglie Orsola Sciortino vennero sequestrate sessanta camere e tre appartamenti. L’equivoco del sequestro giudiziario globale veniva, in un certo senso, confermato dalla creazione, per ispirazione di uno degli amministratori giudiziari, di una società privata, dal nome pomposo, la “Kartibubbo Fulgens in lege”, la quale avallava a se la gestione di tutti i servizi condominiali, pur non avendo alcuna autorizzazione certificata, associandovi anche la gestione di alcuni servizi turistici a San Vito Lo Capo.

Anomale le stime di quanto confiscato: alcune agenzie di stampa hanno parlano di 100 milioni, altre di 400 milioni, i periti di Di Giovanni parliamo parlano di tre/quattro  milioni di beni strumentali, cioè di immobili costruiti direttamente dall’interessato e non acquistati, che, nelle ultime stime stando all’effettivo valore commerciale, non dovrebbero andare oltre gli otto milioni di euro.

La gestione della Fulgens comincia il 25 maggio 2015 per una durata di otto anni, nei quali la società riceve 800 mila euro di contributi da parte dell’Agenzia Beni Sequestrati e confiscati e 500 mila euro di un prestito chiesto all’Unicredit. In un certo momento, rispettivamente nel 2020 e nel 2021 due proprietari intentano causa alla Fulgens, che aveva loro richiesto 6250 euro. Il tribunale riconosce la mancanza di legittimazione attiva nella pretesa creditizia erroneamente vantata e condanna la Fulgens al pagamento delle spese giudiziarie (2916 euro per la prima vicenda e 1677 euro per la seconda). Per la Fulgens è la fine: quella che era stata contrabbandata come un’operazione per riportare nell’alveo della legalità un villaggio “in odor di mafia”, e con un doppio ruolo di amministratore giudiziario e di presidente della società, finisce in una situazione fallimentare e viene sciolta. Prima della sua scomparsa la Fulgens tenta di salvare il posto di lavoro ai dipendenti progettando una cooperativa che si occupi dei servizi di competenza. Naturalmente le difficoltà sono uguali a quelle in cui era incorsa la Fulgens.

Certamente, a voler prendere come unità di misura la cifra richiesta agli estensori del ricorso, cioè 6245 euro per  gli anni 2015-2019 e a volerla estendere a tutti e 500 i proprietari, si arriva alla bella cifra di 3.200.000 euro, ma è solo per avere un’idea. Per contro, in base a stime non verificate, la Fulgens non avrebbe pagato, a partire dal 2015 il canone annuo di 120.000 euro e quello dovuto al Demanio di 90.000.

Al momento la situazione è molto fluida, nel senso che gira una proposta di convocazione dei 14 condomini in cui è diviso il villaggio, al fine di nominare un capo-condominio amministratore unico che si occupi dei servizi; in mezzo ci sta l’amministrazione giudiziaria affidata ai coadiutori Paderni, Aiello e Messina, sul cui ruolo e sulla cui gestione non si dispongono elementi di valutazione, ma basti pensare che, per gestire una quota minima del villaggio sono state nominate ben tre persone, con quel che comporta il pagamento delle loro parcelle: poiché l’ANBSC non ha deciso cosa fare di questi beni, gli amministratori hanno trovato, ormai da dieci anni, come riscuotere una retribuzione mensile, diventata uno stipendio. Non dimenticando la quota di spettanza del demanio statale, c’è poi, a complicare le cose, l’attività di tessitore di un imprenditore proprietario di circa 50 appartamenti, il quale ha stipulato a suo nome contratti di fornitura energia e minaccia di staccare tutto a tutti. I tempi sono molto stretti: se entro il 31 Maggio non si sarà scelto il nuovo “capo dei capi” e definite le sue competenze, il villaggio rischia di chiudere e rimarrà privo di luce, di acqua, di manutenzione della rete fognaria: in pratica c’è solo un mese per salvare la prossima stagione balneare. Pare che tra la cooperativa CLSK e l’ANBSC sia in corso una convenzione, che dovrebbe anche comprendere la gestione dei servizi comuni, ma ancora i proprietari non si sono espressi.

Un’ultima nota riguarda l’area in cui ha sede il villaggio, ovvero Campobello di Mazara, il paese di Matteo Messina Denaro. Non ci sono elementi per valutare eventuali presenze del boss nella struttura, ma le valutazioni giudiziarie in questo campo hanno sempre una chiave di lettura molto aleatoria, affidata alla discrezione dei giudici, non sempre corretta, se si pensa che a un altro imprenditore di Campobello, Carmelo Patti, è stato recentemente restituito tutto il suo vasto impero turistico Valtur, dopo anni e anni di amministrazione giudiziaria, essendo emerso con chiarezza che la mafia non c’entrava.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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