Rimestando nel calderone dei beni sequestrati e confiscati a mafiosi e sull’allegra gestione che ne ha fatto il suo ex presidente Silvana Saguto, continuano a venir fuori pezzi di un sistema, quello delle misure di prevenzione, che si sperava potesse essere riformato con il nuovo Codice Antimafia, recentemente approvato dal Parlamento, e che invece ha conservato la sua struttura di base, anzi ha esteso i poteri e le caratteristiche, fondate sulla legge del sospetto, ai reati di corruzione, concussione e stalking.
Il tutto è sempre nel doppio canale, quello penale e quello di prevenzione, che procedono indipendentemente e che consentono contraddittorie sentenze di assoluzione dai reati di associazione mafiosa e di persistente sequestro o confisca dei beni appartenenti a mafiosi o presunti tali. L’altra faccia oscura del problema è quella degli amministratori giudiziari nominati secondo libera scelta dai magistrati, alcuni dei quali hanno prosciugato le risorse loro affidate per mancanza di capacità imprenditoriale e che non hanno pagato né continueranno mai a pagare per la loro disamministrazione.
Stavolta è toccato a due noti personaggi, da una parte il re dei detersivi Ferdico, dall’altra uno degli amministratori giudiziari più quotati, nelle grazie delle procure di Trapani e di Palermo, Luigi Miserendino. Sia chiaro, si tratta della scoperta dell’acqua calda, perché, come al solito tutti sapevano, ma fingevano di non sapere. Va dato atto all’operato dei finanzieri del Gico e del Gruppo Tutela spesa pubblica del nucleo di polizia tributaria, che hanno piazzato una microspia nello studio di Miserendino e hanno scoperto l’inghippo, arrestando Ferdico per intestazione fittizia di beni, e contestando a Miserendino, posto agli arresti domiciliari, l’accusa di favoreggiamento. Sotto arresto anche tre collaboratori, uno dei quali, Francesco Montes, aveva preso in affitto il centro commerciale e lo gestiva di fatto, su disposizione dell’amministratore Miserendino, mentre gli altri due, Pietro Felice e Antonino Scrima, agivano per conto di Ferdico, che di fatto continuava a controllare tutta l’attività. Secondo il gip Walter Turturici, Miserendino: “Ha ridotto l’amministrazione giudiziaria a un mero simulacro”.
Montes, che in questa vicenda sembra essere stato corretto, aveva più volte avvisato Miserendino della presenza di Ferdico e dei suoi collaboratori dentro il centro commerciale, ma la risposta intercettata dell’amministratore giudiziario era stata chiara: “A me in questa situazione, chi me lo fa fare di intervenire? Lei mi continua a sollecitare che posso risolvere la situazione, io la situazione la posso risolvere con un atto di forza, ma a me in una situazione del genere chi mi ci porta a fare un atto di forza?”. Non avendo ricevuto altre risposte Montes si era rivolto alla Guardia di Finanza e ne era nata un’indagine coordinata dai sostituti Roberto Tartaglia, Annamaria Picozzi e dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca.
Mentre da una parte Ferdico finiva sotto processo, dall’altra l’Ufficio Misure di Prevenzione, gestito dalla Saguto, disponeva il sequestro dei suoi beni, stimati in circa 400 milioni di euro, e ne affidava l’amministrazione a Miserendino.
E tuttavia, alla fine, nel 2014 Ferdico era stato assolto da ogni imputazione, dopo avere dichiarato di versare 5 mila euro al mese ai Lo Piccolo, e di essere pertanto vittima d’estorsione. In piedi era invece rimasto il procedimento di prevenzione, sino ad arrivare alla confisca dei suoi beni e, a partire da marzo, alla sorveglianza speciale disposta dai giudici, con l’obbligo di soggiorno a Palermo per tre anni e mezzo, come soggetto socialmente pericoloso. Tutto questo, a quanto pare, non era servito a tenerlo fuori dai giochi e ad impedirgli di continuare a lavorare in quella che egli considerava “la sua azienda”, con il benestare dell’amministratore giudiziario Miserendino, che non si era preoccupato di avvertire la Procura.
«Sono un medio imprenditore a servizio dello Stato. Con molti problemi: le banche che chiudono i finanziamenti, prima concessi al mafioso, i clienti che non si fanno più vedere e, purtroppo, anche il disinteresse delle istituzioni. Bisogna credere in questo lavoro. Non si può svolgere come una qualunque attività professionale. Bisogna metterci qualcosa in più, sentirsi più manager che professionisti, e poi, lo ripeto, credere in quello per cui si sta lavorando. Essere manager della legalità. La prima cosa è capire bene se ci sono ancora ingerenze mafiose, e allontanare queste persone. Ma può succedere che venendo meno questa presenza l’azienda subisca un blocco totale o quasi. Bisogna quindi subito sopperire, facendo salti mortali per garantire trasparenza e correttezza, che ovviamente il mafioso non rispettava. Bisogna recuperare il rapporto con fornitori e banche che spesso non danno più la fiducia che prima concedevano al mafioso e, addirittura, revocano i fidi. E poi la cosa più importante ma più difficile: non perdere clienti. Se prima erano legati all’imprenditore mafioso, devono ora capire che l’azienda sta andando avanti e avere nuova fiducia. È questo il passaggio più delicato. Se l’amministratore giudiziario è lasciato solo, non potrà mandare avanti l’azienda. Per questo è necessaria la collaborazione di tutte le istituzioni. Mi riferisco alla prefettura, alle forze dell’ordine, alla magistratura. Tutti i soggetti che a vario titolo hanno competenza sui sequestri, soprattutto per i casi più delicati, come le imprese che operano nell’edilizia, un settore particolarmente inquinato.
Dovrebbe essere interesse dello Stato perché non può poi far deperire i beni portati via alle cosche. Sarebbe una doppia sconfitta. Da un punto di vista sociale perché i dipendenti dell’azienda percepirebbero la presenza dello Stato come qualcosa che li ha danneggiati fortemente. E poi dal punto di vista del patrimonio sequestrato e poi perso. Resta il problema dei finanziamenti. L’amministratore giudiziario da solo non può dare nessuna garanzia reale alle banche. Ci vorrebbe un meccanismo che preveda la possibilità da parte dello Stato di garantire gli istituti di credito che hanno finanziato o che finanzieranno le aziende sequestrate.
Lo spirito giusto è quello di cercare la collaborazione di tutte le istituzioni. E poi mai abbassare la guardia: i mafiosi cercheranno in tutti i modi di tornare in possesso dei loro beni, soprattutto le aziende, o vorranno farle morire. Perché i mafiosi non mollano mai. L’esperienza ci insegna proprio questo. Però col lavoro coordinato di tutte le istituzioni, le probabilità che queste azioni abbiano successo si riducono di molto. La mafia non è più forte delle istituzioni se queste sono davvero tutte unite. E le aziende confiscate potranno vivere, dando lavoro onesto e pulito. Ma serve l’impegno di tutte le istituzioni altrimenti chiuderanno o torneranno ai boss».
Il discorso non fa una grinza. Purtroppo, davanti a tale dichiarazione d’intenti i fatti hanno dimostrato che Miserendino, al cui seguito lavorano, per sua affermazione, una decina di avvocati, è uno dei tanti avvocati-amministratori del cerchio magico. L’amministrazione più grossa è quella dei beni di Calcedonio Di Giovanni che il 27 ottobre 2014 gli viene affidata, in collaborazione con Roberta Paderni, dopo che la Dia di Trapani e di Palermo ne aveva effettuato il sequestro per un valore stimato in 450 milioni di euro, comprendente 20 società operanti nel settore immobiliare e i relativi compendi aziendali, 547 unità immobiliari, 12 veicoli, 8 rapporti e depositi bancari, terreni e case in provincia di Trapani e Palermo e una serie di società, molte delle quali oggi in liquidazione: la Titano real estate limited, la Compagnia immobiliare del Titano, Il Cormorano, la Fimmco, il Campobello park corporation, l’Immobiliare La Mantide, l’Associazione orchidea club, la Selinunte country beach, alcune quote del Selene residence di Campobello di Mazara, il Parco di Cusa vita e vacanze, la Dentalhouse, la Numidia srl. Non è l’intero villaggio a essere sequestrato, ma 60 camere e tre appartamenti, intestati alla moglie di Di Giovanni.
Gli amministratori si occupano dei servizi condominiali che, in realtà, secondo i proprietari degli immobili dovrebbero essere di propria competenza, e ne hanno affidato la gestione a una società di servizi, Kartibubbo Fulgens in lege, di cui Miserendino è amministratore, assistito dalla Paderni e da certi Giambrone e Bellanca. C’è stata una società inglese che deteneva il 50%, ma che poi è stata liquidata ed è scomparsa di scena. La società, che gestisce anche una struttura turistica a San Vito Lo Capo, si occupa anche del noleggio di attrezzature turistiche. Il 4.10.2016 arriva la notizia della confisca di primo grado dei beni a Calcedonio Di Giovanni, con il solito balletto sulle stime dei beni: alcune agenzie di stampa parlano di 100 milioni, altre, di 400 milioni, i periti di Di Giovanni parliamo di tre/quattro milioni di beni strumentali, cioè di immobili costruiti direttamente dall’interessato e non acquistati, che, nelle ultime stime stando all’effettivo valore commerciale, non dovrebbero andare oltre gli otto milioni di euro, il tutto affidato all’amministratore Miserendino, oggi posto agli arresti domiciliari, malgrado il suo slogan: “Fulgens in lege”, risplendente nella legge.
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