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Il ritorno di Ringo

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Naturalmente non è Ringo, ma Pino Maniaci che torna a casa. Giovedì passato era stato ascoltato dal GIP Aiello, che assieme all’altro GIP Sestito avrebbe dovuto valutare e giudicare se sussistevano i motivi per reiterare il divieto di dimora nelle province di Palermo e di Trapani a Maniaci.

I GIP si sono presi cinque giorni e oggi, in mattinata hanno comunicato a Maniaci che poteva tornare a casa, poiché non ci sono i presupposti per ricorrere a una simile misura cautelare. Stupisce il fatto che, mentre Pino Maniaci si trovava alla caserma di Sciacca, intorno alle ore 11, per avere notificata la decisione del giudice e mentre lui pensava di fare una sorpresa alla famiglia, già la notizia era stata pubblicata su Live Sicilia e sul sito de La Repubblica. Come fanno certi giornalisti a sapere le cose prima degli altri è una domanda inquietante che certamente evidenzia e prova il rapporto privilegiato tra giornalismo e Procure.

Ricordiamo che la Cassazione aveva, una quindicina di giorni prima, giudicato inammissibile il ricorso avanzato dai legali di Pino Maniaci, Ingroia e Parrino, contro il divieto di dimora richiesto dai PM Picozzi, Luise, Teresi e Del Bene, i quali ipotizzavano che Maniaci avrebbe potuto reiterare il reato di estorsione, questa volta, dopo l’annullamento del primo provvedimento, che tirava in causa i sindaci di Borgetto e di Partinico. Stavolta invece, riprendendo un episodio che in prima analisi era stato ritenuto insufficiente, l’estorsione sarebbe stata commessa nei confronti del consigliere comunale Polizzi che si lamentava con l’ex sindaco Davì per tre mesi d’ affitto mai pagato e per duemila magliette anch’esse non pagate. Polizzi ha poi ritrattato tutto, è stato chiarito che le magliette non sono mai state stampate, che l’affitto era un utilizzo della casa della protezione Civile per i ragazzi di Telejato, ma è stato ritenuto inattendibile. Da qui il ripristino del confino, che non aveva alcun senso dal momento che, nei quattro mesi in cui Maniaci, dopo il primo provvedimento durato una quindicina di giorni, è tornato a casa, non ha reiterato niente. Stavolta il confinio è durato 12 giorni. Sembra di vivere in una sorta di sfera allucinatoria in cui si può giocare con la pelle di un uomo mandandolo via di casa, facendolo rientrare, mandandolo di nuovo al confinio e facendolo rientrare di nuovo.

La realtà supera la fantasia e ci rimanda a una inquietante domanda che da tempo è rimasta senza risposta, ovvero, cosa c’è dietro l’operato dei PM di Palermo e che cosa ha motivato un iter giuridico nei confronti di una persona la cui colpa è di avere usato il mezzo televisivo di cui dispone, non per ricattare alcuni soggetti, ma per evitare che nella gestione amministrativa dei due comuni non potessero essere presenti infiltrazioni mafiose. Per contro Maniaci è stato “assimilato” e associato ai mafiosi di Borgetto, quasi che non ci fosse differenza tra i soldi che chiedeva in cambio di pubblicità trasmessa o per aiutare una bambina portatrice di handicap e e le grandi estorsioni messe in atto dai mafiosi borgettani. Va anche messo sul piatto il video confezionato ad arte per gettare discredito su un uomo della cui antimafia, secondo la procura, non c’era bisogno. Il processo e l’imminente rinvio a giudizio ci diranno quanto c’è di concreto in tutta questa matassa costruita con sapienza, quanto lunga è l’ombra della Saguto e dei giudici suoi amici nel progettare come incastrare Maniaci. Sappiamo per certo che già – perché è scritto nell’ordinanza di sequestro dei beni della Saguto e dei suoi complici – nell’aprile 2015 era stato deciso di applicare “le misure cautelari” a Maniaci. Siamo davanti a una di quelle tante storie nelle quali l’uomo, qualsiasi egli sia, si chiami Maniaci o Enzo Tortora, deve sudare sette camicie, spendere soldi e fare bile per avere giustizia.

Adesso Ringo torna a casa. Non ha la pistola fumante, ma solo voglia di trovare un po’ di serenità, di godere dell’affetto dei suoi familiari e di continuare il suo lavoro sino a quando glielo faranno continuare. Niente vendette, niente estorsioni, niente diffamazioni, ma solo una prosecuzione di un’attività che, con tutti i suoi difetti, ha lasciato un segno, ha avuto un ruolo e una dignità d’informazione in un ambiente difficile, come quello della valle dello Jato e ha rivoluzionato il modo lecchino di fare informazione che caratterizza tutto il giornalismo italiano. Alla base di tutto c’è la constatazione che, sia nel suo caso come nel caso della cricca della Saguto, ogni tanto c’è il famoso giudice di Berlino che riesce a fare giustizia. E questo giudice ha deciso che i capi d’imputazione erano irrilevanti, avevano bisogno di ulteriori approfondimenti che non erano stati fatti, che il reato era stato consumato nel 2013 e il decorso di tre anni incide sulla valutazione dell’esigenza cautelare, che gli altri indizi risalgono al 2003 e al 2007. Leggiamo: “può rilevarsi la inutilità della misura del divieto di dimora, potendo l’indagato svolgere l’attività di denigrazione pubblica anche dal sito presso il quale attualmente si trova. Ma ciò che impone l’accoglimento della richiesta difensiva è la valutazione della insussistenza di un attuale pericolo di reiterazione specifica in ragione del tempo trascorso dal commesso reato”.

E ci voleva tanto a rendersi conto che oggi si possono fare collegamenti in diretta da qualsiasi posto del Mondo e che quindi non serve a nulla staccare un uomo dal posto in cui vive e lavora? Può darsi che ci sbagliamo, ma secondo chi scrive c’era alla base un solo motivo: bisogna dargli una lezione. Bene, la lezione è stata data, abbiamo visto e toccato con mano che tutti i giornalisti e tutti gli antimafiosi d’Italia hanno subito preso tutto per oro colato e hanno lasciato solo Maniaci, condannandolo prima del processo. Adesso, per favore, non lasciamo che questa solitudine possa continuare, perché il gioco potrebbe diventare pericoloso. Toccando ferro vogliamo ricordare una frase di Giovanni Falcone: Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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