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Il renzismo e la crisi del PD

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Oggi il PD festeggia i suoi dieci anni di vita.

Da più parti si è obiettato che c’è poco da festeggiare, perché i suoi padri fondatori, da Prodi, a Bersani, a Parisi, a D’Alema, ad Epifani sono andati via. In realtà si tratta di un partito nato vecchio, nel momento in cui la parola “partito” è scomparsa dai nomi di tutte le forze del panorama politico italiano. Ma si poteva trattare di una dignitosa vecchiaia, nata sulle ceneri di una gloriosa storia, se non fosse intervenuto il processo di assorbimento dell’anima democristiana rappresentata dai Popolari e se quest’ultima non avesse preso il sopravvento con Renzi e la sua stravagante teoria della “rottamazione”. Alla fine sta finendo di rottamare quel che resta del PD e quindi anche se stesso.

In questi giorni, con la riforma elettorale approvata attraverso la forzatura della fiducia, ma con l’accordo con Berlusconi, Alfano e Salvini il PD ha fatto un ulteriore passo in avanti verso la sua fine. Il penultimo è stato quello del referendum, perso malamente, ma il tracollo era cominciato molto prima, si potrebbe cercarne un’origine recente con il peccato originale della scelta del sistema maggioritario, nella suicida volontà di scimmiottare il sistema americano, attraverso l’intenzione di creare un partito rimodellato sul centrismo democristiano, e quindi espressione della piccola e media borghesia che aveva caratterizzato la cosiddetta prima repubblica. Il progetto è andato a sbattere contro una serie di scogli e di “novità” nate nel panorama politico italiano, a cominciare dal berlusconismo, dal leghismo e per ultimo dal grillismo. Tutte forze con una verniciatura “antisistema” che finivano con il caratterizzare il PD come forza-sistema e con il rovesciare su di esso tutte le storture sociali e le voragini aperte dalla crisi, proprio nella sopravvivenza di quel ceto medio del quale il PD avrebbe voluto essere espressione. Il renzismo è stato il momento finale di questi passaggi, soprattutto in alcune scelte avallate dalla governante europeista, come il job act, la riforma scolastica, il tentativo di abolire il senato e riformare la costituzione, il salvataggio di banche in crisi per incapacità gestionali, il blocco dei salari, il blocco delle assunzioni, la politica dell’accoglienza a braccia aperte dei flussi migratori senza alcun progetto su come utilizzare questa che poteva essere una risorsa e il mancato rilancio di un piano nazionale di lavori pubblici in un paese che sta cadendo a pezzi. Si potrebbero aggiungere altri elementi, dall’iniqua politica fiscale, al continuo travaso di ricchezza nelle mani dei ricchi, al mancato utilizzo dei beni sequestrati alla criminalità mafiosa, all’apertura sconsiderata verso i capitali esteri che hanno portato gran parte delle aziende italiane e dei marchi nelle mani di multinazionali. Allo smantellamento dello stato sociale si è contrapposto il principio della privatizzazione a qualsiasi costo e la riduzione all’angolo in un angolo del soggetto umano, cioè dei lavoratori, diventati l’ultima ruota del carro. Altri elementi collaterali sono stati la scarsa attenzione ai problemi della sicurezza, della messa in sicurezza del territorio, l’alimentarsi della corruzione, la mancata riforma della giustizia, il deteriorarsi della politica sanitaria, l’allineamento succube alle scelte politiche di un’Europa dominata dall’alleanza franco-tedesca. In sostanza la mancata elaborazione di un vero new deal (nuovo corso) che desse quantomeno l’impressione che in qualcosa si volesse cambiare. In pratica il PD si è configurato nella visione comune come l’elemento di conservazione delle vecchie logiche corresponsabili dello sfascio, la colonna portante della persistenza di un sistema asservito alle logiche del capitalismo mondiale.

Il cambio del sistema elettorale ha finito con il completare l’opera. Rispetto a una sinistra che non è più sinistra, gli elementi eversivi si sono orientati verso la protesta , al momento velleitaria e disorganica del grillismo o a quella più pericolosa del berlusconismo di ritorno: da destra ne è venuta fuori la ricompattazione del blocco conservatore, con tutte le sue pericolose deviazioni autoritarie, razziste, nazionaliste, mentre a sinistra si è andati incontro ad una serie di scissioni, da parte di gruppi e uomini che non volevano e non vogliono rinunziare alle lontane radici e ai principi di una sinistra autentica e non banalizzata. E pertanto la montagna ha partorito il topolino, ovvero una riforma elettorale che offre in un piattod’oro il paese in mano a chi si sa alleare, cioè a destra,con la sua galleria di mostri, o, in alternativa, a chi si contrappone come forza antisistema, cioè al grillismo privo di progettualità e senza uomini autorevoli, almeno che non si voglia considerare tale Di Maio. Il tutto aggravato da quella che una volta la sinistra chiamava “legge truffa”, cioè dal premio di coalizione, autentica falsatura della democrazia, che dovrebbe consentire alla maggioranza, falsando i risultati elettorali, di governare promuovendo a maggioranza il 40% che dovesse uscire dalle urne. Anche il pasticcio tra quote maggioritarie (il 40%), destinate ad essere appannaggio delle alleanze di centrodestra, e quote proporzionali, (il 60%) concepite per lasciare al loro posto, i candidati scelti dai partiti, cioè facce e personaggi dell’apparato, che mai avrebbero potuto trovar posto se agli elettori fosse stato consentito di scegliere a chi dare la preferenza, rappresenta ancora una volta la faccia di un karakiri, cioè di un suicidio politico di cui solo il renzismo poteva essere capace. Per salvare la poltrona ai loro fedelissimi Renzi e i suoi amici non stanno esitando a “rottamare” l’ultimo scampolo di democrazia che dava agli elettori il diritto di scegliere da quali uomini chi debbono essere governati, oltre che una precisa rappresentanza elettorale espressa dalla forza in voti reali posseduta da ogni partito. Insomma, per chi vuole esprimere la propria ribellione al sistema è rimasta ben poca scelta: o i dilettanti allo sbaraglio di Grillo o la possibilità di un quarto polo di sinistra autentica che sappia raccogliere sotto il suo simbolo le varie anime disperse al di là del renzismo e che è ancora in cerca di un’immagine e un uomo che la esprima.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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