Ogni grande evento ha un suo personale movimento d’opposizione; andando di moda i “no”, così come i No Tav, i No Muos, anche per l’Expo di Milano il suo contraltare erano i “No Expo”.
Un movimento nato nel 2007, e devastato mediaticamente in una sola giornata. Dopo anni di percorsi di avvicinamento, di costruzione di dossier, materiali informativi, eventi, assemblee, questo primo maggio era il lancio, l’apertura di un periodo di contestazione all’evento mondiale. Non possiamo ovviamente parlare di fine di tutto ciò; ma sicuramente ora sarà più dura per quella rete di comitati, centri sociali, attivisti, tirare dalla loro parte l’opinione pubblica e i cittadini. Le immagini sui giornali, i servizi in tv fanno pensare a una vera e propria guerra in piazza. Auto bruciate, negozi devastati, vetrine rotte e scritte sui muri. Per non parlare dei lanci tra manifestanti e polizia di bombe carta e lacrimogeni, delle colonne di fumo nero e dei caschi e delle mazze abbandonate sul terreno alla fine delle azioni. Immagini da riot, immagini di pura violenza. Ma in piazza a Milano ieri non c’erano solo loro, non c’era solo il “blocco nero”. I giornali parlano di ventimila manifestanti arrivati da tutta Italia per sfilare contro l’Expo. Per manifestare pacificamente il loro dissenso, a ritmo di musica e cori, lontanissimi dal rumore delle bombe carta e dalle divise nere. Vestiti con i giubbotti catarinfrangenti, colorati per distinguersi dai black bloc, in molti protestavano contro il lavoro gratuito, contro lo sfruttamento in nome del grande evento che ha assoldato migliaia di volontari per lavorare gratis. Altro simbolo di precarietà, di un futuro incerto, di una politica che preferisce investire nelle grandi opere piuttosto che nelle scuole, nelle università, nella ricerca. Il corteo era diviso in spezzoni: ad aprire erano i comitati no Expo, che da anni ragionano sul danno che quest’evento sta portando alla città di Milano e all’Italia tutta. Parlano di sfruttamento del territorio, di imposizione di un modello nocivo di sviluppo, di deficit di democrazia e di speculazioni, di mafia, tangenti. Poi lo spezzone sociale, i collettivi universitari, alcuni centri sociali che dall’inizio dell’anno discutono di lavoro, precarietà, sciopero sociale. Si susseguivano striscioni, collettivi, altri centri sociali, ognuno con slogan, cartelli, bandiere. Ma la protesta, nella sua diversità, era unica: è la critica a un modello di città, di sviluppo, di uso del territorio e dei beni comuni che è diventato egemone a Milano e di cui l’Expo si fa portavoce. Un modello che, secondo i manifestanti in piazza, ha reso questa città grigia, invivibile, priva di coesione sociale e precaria nel lavoro e nella vita. “Expo non aiuta l’Italia e Milano”, ripetono; “ma alimenta solo le tasche di chi ha contribuito a devastare la metro-regione Milano negli ultimi decenni.”
Infine, c’erano loro. Gli unici che tutti sembrano ricordare. Una massa informe, tutti uguali nei loro giubbotti neri, cappucci fino agli occhi e zainetti sulle spalle. Italiani, tedeschi, francesi, greci, uniti nella lotta contro banche, macchine, e contro una polizia lontana, che non si è praticamente mai vista. Li ha lasciati fare, optando per una politica di contenimento e non di opposizione frontale. Non ci sono stati scontri, nessuna carica. Una tattica vincente, per quanto ora si gridi all’incapacità delle forze dell’ordine di controllare la piazza, che non ha lasciato spazio alla violenza tra persone ma che ha solo cercato di arginare quella contro cose e luoghi. E per quanto si chiedano le dimissioni di certe cariche. La guerriglia invece era quasi continua alla fine del corteo: lanci di bombe carta, bottiglie di vetro, fumogeni; e le forze dell’ordine che rispondevano a suon di lacrimogeni. Si sapeva, tutti sapevano. Quello del primo maggio era un corteo spaccato a metà ma che nessuno aveva la forza politica di dividere. Un corteo eterogeneo, ma diviso in due dalle pratiche di lotta e di opposizione; chi crede nella protesta pacifica, scenica, nella proposta di alternative, nelle assemblee e nelle risposte collettive ai problemi comuni, e chi predilige la semplice e pura devastazione come mezzo per farsi sentire e per richiamare l’attenzione. Purtroppo i cinquecento “black bloc” che hanno controllato il retro del corteo hanno fatto più rumore. Sono stati più scenici. Hanno vinto nell’accaparrarsi tutti i media e le attenzioni dei giornali. Sono riusciti a far dimenticare le ragioni di questo MayDay milanese per concentrare l’interesse pubblico su ciò che esso ha causato. E il movimento ha perso.
La violenza che c’è stata e che non c’è stata- gli scontri- ha causato due cose: da una parte, ha trascinato l’opinione pubblica a un’inevitabile dura condanna della manifestazione di ieri. Non interdetta nemmeno dalle foto di manifestanti sanguinanti, da cariche violente e da ragazzini in manette, si è schierata contro i devastatori delle strade milanesi, gli incendiari, i vandali che “si divertono” a giocare alla violenza. E dall’altra, quel movimento ha già perso di forza e legittimità, ha creato ulteriori divisioni, non solo tra chi era in piazza ieri e chi non c’era, ma anche tra chi era a sfilare in corteo, tra chi disprezza quella rappresentazione del conflitto e chi la ama.
Una cosa è però chiara. Quella piazza è stata costruita interamente dal basso ed in modo autonomo. Nessun sindacato, partito, organizzazione istituzionale ha portato quelle migliaia di persone in corteo. Sono un popolo di non rappresentati, a cui nessun partito sta dando voce. Nessun politico né schieramento si è davvero opposto al grande evento. Nessuno ha protestato. Eppure la piazza era piena. Il novanta per cento erano attivisti, militanti, è vero. Pochi gli esterni e i semplici cittadini. Ma sono una forza di indignati che cerca di rappresentare il conflitto e di incidere nella bilancia del potere. Tramite azioni sceniche, tramite colpi mediatici. Messaggi che non necessitano di parole. Ma con forme alquanto diverse a seconda di chi popola il corteo.
Nonostante le differenze, restano una forza da non sottovalutare. Perché la violenza che si è scatenata in piazza ieri non era semplice divertimento; era lo scoppio di una rabbia radicata, di frustrazione e di senso di impotenza.
Il dilemma oggi è capire come reagire. Come controbilanciare “Il potere”, come far udire quel popolo non rappresentato. Con quali forme di lotta rispondere e in quale modo aggregare consensi e non creare dissenso.
Ma forse la violenza non è la risposta.
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