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Il ”concorso esterno in associazione mafiosa”, il reato fantasma

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Il proscioglimento dell’editore de “La Sicilia” di Catania Ciancio dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa ha ridato fiato a tutti coloro che da tempo sostengono che questo reato non esiste.

In realtà Ciancio è stato assolto perchè, secondo il Gup, gli elementi raccolti dall’accusa non sarebbero stati idonei a sostenere l’accusa in giudizio, e non perchè l’imputazione fosse sbagliata o inesistente. Uguale coro di voci si è alzato allorchè la Corte europea dei diritti dell’uomo, il 14 aprile 2015, ha stabilito che l’ex superpoliziotto Bruno Contrada, condannato nel 2007 per concorso esterno, non meritasse quel trattamento in quanto all’epoca dei fatti che gli furono contestati, tra 1979 e 1988, il reato non era «sufficientemente chiaro», cosa che invece sarebbe diventata più “chiara” dopo una sentenza della Cassazione, pronunciata a sezioni unite il 5 ottobre 1994 che avrebbe dato, per la prima volta, una tipizzazione coerente e una  definizione delle caratteristiche del reato. Anche qua sembra evidente che la Corte Europea non entra in merito all’esistenza o alla validità del reato, ma precisa che all’epoca dei fatti il reato non era supportato da adeguate sentenze e che quindi l’imputato non era a conoscenza delle conseguenze penali cui sarebbe andato incontro. come previsto dall’art. 7 CEDU.

Ma il reato c’è o non c’è? Se ne parla da più di trent’anni e i giuristi sono divisi in due scuole di pensiero, mentre i magistrati allungano l’elastico a loro piacimento, con sentenze, spesso contrastanti, disponendo in merito di grande libertà di scelta e di interpretazione. Il magistrato Giuseppe Ayala ha cercato di prendersi la paternità del problema, dicendo, in un’intervista a Radio Radicale che “Su certi imputati non avevo assolutamente elementi per dimostrare che fossero organicamente interni all’associazione mafiosa, tuttavia il semplice reato di favoreggiamento era insufficiente: così mi inventai il concorso e ne parlai con Falcone”. Chiaro che su ciò su cui non si hanno riscontri, si può dire e testimoniare quel che si vuole, ma di sicuro fu proprio lo stesso Giovanni Falcone che, nel 1987, alla fine del maxiprocesso ter a Cosa nostra, sottolineò la necessità di una «tipizzazione» capace di reprimere le condotte grigie che indicava come “fiancheggiamento, collusione, contiguità” al sodalizio mafioso.

I reati associativi previsti dal codice sono quelli di cui al Titolo V “Dei delitti contro l’ordine pubblico”, e cioè l’art. 416 “Associazione per delinquere”, l’art. 416 bis “Associazioni di tipo mafioso anche straniere”, e l’art. 416 ter “Scambio elettorale politico-mafioso”, mentre il concorso nel reato è previsto dall’art. 110, banalmente volgarizzato nel detto: “ladro è chi ruba e chi gli regge il sacco” o, per citare un’altra casistica, nella figura del “palo” durante il furto. Attraverso quello che in giurisprudenza è chiamato un “combinato disposto”, il “concorso nel reato” dell’art. 110 è stato legato al reato di associazione per delinquere del 416 e a quello di associazione mafiosa del 416 bis e ne è venuto fuori il “concorso esterno in associazione mafiosa”  che, in un certo senso non fa dell’imputato un mafioso, ma un collaboratore esterno.

Di tale reato sono stati sospettati, imputati, accusati Giulio Andreotti, Giacomo Mancini, Silvio Berlusconi, Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri, Renato Schifani e in molti casi si è gridato all’uso politico della giustizia, come se l’essere collusi con la mafia fosse un’accusa conseguente a una strategia di magistrati “comunisti” che volevano servirsi della legge per incriminare i loro avversari politici. Un analogo ricorso a quello di Contrada, alla Corte di Strasburgo ha fatto Marcello Dell’Utri, condannato a 7 anni di carcere e in carcere dal giugno 2014 per reati risalenti al periodo 1974-1992.

Malgrado una serie di proposte di legge, a partire da quella presentata nel giugno 2001 dai Giuliano Pisapia, allora deputato di Rifondazione, che proponeva l’introduzione nel Codice di un articolo, 378 bis, con una pena da tre a cinque anni per chi “favorisce consapevolmente con la sua condotta un’associazione di tipo mafioso o ne agevola in modo occasionale l’attività”, a quella di Luigi Compagna di Forza Italia che, nel marzo 2013 proponeva una riduzione di pena, per il reato, da uno a cinque anni, proposta poi ritirata e definita dal presidente del senato Piero Grasso “una vergogna” e “una fuga in avanti inopportuna”, il Parlamento, e, in particolare il Governo, ad oggi non è intervenuto. Coloro che sostengono l’esistenza di un “partito dei magistrati” ritengono che costoro avrebbero tutto l’interesse a conservare le mani libere. In realtà si tratta di valutare una serie di apporti esterni all’associazione di tipo mafioso, quali il favoreggiamento aggravato, l’assistenza agli associati, l’aggravante di cui all’art.7 legge n. 203/1991, le varie forme di istigazione, le azioni dei cosiddetti, “colletti bianchi”, soggetti che non sono organici all’organizzazione criminale, ma che contribuiscono attivamente alle sue attività.

La mancanza  di una precisa codificazione del reato ha comportato una serie di sentenze discordanti, di condanne ed assoluzioni, che rimettono ogni volta in discussione il principio “La legge è uguale per tutti”. ‘Assolto l’ex ministro Saverio Romano, condannato in primo grado e scagionato in appello  l’ex deputato di Forza Italia Gaspare Giudice. Così come l’ex ministro democristiano Calogero, condannato Ignazio D’Antone, l’ex questore che ha finito di scontare otto anni di carcere, condannati e oggi liberi gli ex Dc Enzo Inzerillo e Franz Gorgone. L’introduzione, nel 1991 del favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra ha  portato in carcere Salvatore Cuffaro, che però fue scagionato dall’accusa più grave di “concorso esterno”, cosa per cui festeggiò con i cannoli. Giuliano Ferrara ha scritto che «l’Italia da anni “processa le ombre” e fa di un simil-reato la sostanza della persecuzione ingiusta degli innocenti fino a prova contraria». In realtà Ferrara non vede al di là della sua ciccia, perchè le collusioni con la mafia ci sono, come diceva Peppino Impastato, “ci sono gli amici, gli amici degli amici, gli amici degli amici degli amici, gli amici degli amici degli amici degli amici…”. Il problema è di fissare precisi paletti su cui pronunciare il giudizio e applicare la pena, cioè scrivere e codificare un articolo di legge senza consentire ai più furbi di venirne fuori solo perchè hanno un bravo avvocato hanno i soldi, sono importanti.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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