La corte d’appello di Palermo, sezione quinta penale e per le misure di prevenzione, composta dai magistrati Maria Patrizia Spina, Antonio Caputo e Giovanni Carlo Tomaselli, con un decreto depositato in cancelleria il 15 dicembre 2017, ha accolto il ricorso in appello proposto da Filippo Guttadauro, Maria Guttadauro, Francesco Guttadauro e da Massimo Niceta, con un decreto che ribalta quello emesso dal Tribunale di Trapani, in data 2 giugno 2015.
In primo grado il tribunale aveva aggravato la misura di sorveglianza personale nei confronti di Guttadauro Filippo, Francesco e Maria, rispettivamente padre e figli, legati al boss di Trapani Matteo Messina Denaro, del quale Filippo aveva sposato la sorella. Secondo la prima ricostruzione dei giudici di Trapani i Guttadauro sarebbero stati i soci e finanziatori occulti della società NI.CA. che aveva aperto due punti vendita nel centro commerciale di Belicittà, a Castelvetrano, intestati a Massimo Niceta e sarebbe stata ipotizzata un’associazione mafiosa nel settore imprenditoriale, estesa anche ai fratelli di Massimo, Olimpia e Piero. Addirittura, nelle pregresse ricostruzioni dei giudici di Palermo, autori di un nuovo sequestro, dopo quello di Trapani, si ipotizzava una lontana amicizia, risalente agli anni ‘90 tra Mario Niceta, padre di Massimo ed esponenti del mandamento mafioso di Brancaccio ai quali avrebbe venduto, intorno al 1992, la sua parte di una cava. Per chi non conosce i fatti va detto che Mario Niceta ha passato gli ultimi 20 anni della propria vita su una sedia a rotelle, nella condizione di tetraparapelgico, condizione, secondo i giudici, non sufficiente a sottrarlo dal sospetto di concorso in associazione mafiosa. In pratica, con l’utilizzo di notizie raccogliticce e dell’inoppugnabile regola del sospetto, che non ha bisogno di prove, è stata confezionata una polpetta avvelenata, studiata nei dettagli, per consentire al tribunale di Palermo, presidente la Saguto, di mettere le mani sull’attività di uno dei più prestigiosi imprenditori palermitani legati al settore della moda ed affidarne l’amministrazione giudiziaria a uno dei tanti componenti del cerchio magico di amministratori giudiziari “in quota”, Aulo Gigante.
Il tribunale ha evidenziato il ruolo di controllo superficiale svolto dal perito nominato dal giudice, il quale, per sua stessa ammissione ha ritenuto che le differenze tra quanto inventariato e quanto trovato erano minime, che era priva di attendibilità l’imputazione di falsi inventari in nero, così come del tutto irrilevanti erano le somme di denaro transitate sul conto corrente di Guttadauro Maria, per lo più tutte imputabili al pagamento delle sue competenze di impiegata presso il negozio NI.CA.
Del tutto inattendibili e indimostrate sono state ritenute anche le dichiarazioni del cugino Angelo Niceta, il quale aveva detto, senza poterlo dimostrare, che i Guttadauro sarebbero stati soci di Niceta al 51%. Il tribunale ha rilevato, nella costruzione della precedente sentenza elementi congetturali illogici e indimostrati che non avevano tenuto alcun conto delle precisazioni prodotte dalla difesa degli imputati. La corte parla chiaramente di “insufficienza indiziaria”, di “difetto di autonoma valutazione delle prove da parte dei primi giudici e di una accusa di “fittizia intestazione di beni che non trova riscontro positivo a favore dell’intestatario”. In ragione della ritenuta insussistenza del delitto di trasferimento fraudolento di valori, è stata disposta la revoca del sequestro e della confisca del rapporto bancario intestato a Guttadauro Maria e della metà del complesso dei beni costituenti la metà del ramo d’azienda di Castelvetrano della società NI.CA.
A Francesco Guttadauro viene restituito un fabbricato plurifamiliare adibito a civile abitazione a Castelvetrano, in quanto è stato dimostrato che tale immobile è stato acquistato, demolito, costruito con regolare licenza, grazie i soldi ricavati dalla vendita di una casa ubicata a Palermo donata con atto notarile dal padre Filippo e a quest’ultimo pervenuto per successione paterna. I beni che avrebbero dovuto essere restituiti a Massimo Niceta ammontano, secondo una puntuale descrizione riportata in sentenza, a 151.953,17 euro, ma è ben chiaro che di tutto ciò, finito in amministrazione giudiziaria, è rimasto ben poco. “Se non altro è stata restituita a mio padre e alla mia famiglia un’onorabilità guadagnata sul campo con anni di onesto lavoro e grazie alle nostre capacità imprenditoriali – spiega Niceta -. Sarà durissimo ricominciare, anche perché né lo stato, né la Saguto, né l’amministratore Aulo Gigante, attualmente tra gli indagati del caso Saguto, potranno mai ripagarci di quanto ci hanno sottratto”.
Con questa sentenza viene meno un altro dei tanti tasselli del “sistema Saguto”, che ha prodotto, negli anni di suo maggior successo, una paurosa crisi delle attività imprenditoriali in Sicilia, finite, spesso immotivatamente sotto sequestro, nel tritacarne delle misure di prevenzione. I Niceta sono in attesa della prossima udienza, il 20 gennaio, nella quale si dovrebbe decidere, tenuto conto del dissequestro disposto da Trapani, la revoca del sequestro disposto da Palermo.
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