I Facci della vita
Eppure, ho simpatia per Facci. Tanti anni fa polemizzavamo con eleganza, lui dalle scrivanie del “Giornale” e io dal mio sottoscala. Non ci siamo mai ingiuriati, che io ricordi, anche se le parole erano dure; allora non si usava ancora, fra quelli della nostra età, esser volgari. Scriveva bene, ammettevo con riluttanza; e non solo lui ma anche altri dei suoi conservi – il giovane Luca Telese, il gras ma non ancor gris Ferrara e qualcun altro.
Telese, allora, era un giovane giornalista col papillon, il primo suo pezzo era uscito sui Siciliani anni ’90, retour d’Auschwitz; aveva rinunciato alle illusioni, ma era rimasto uno del nostro mestiere. Ferrara, cresciuto da principino “comunista” destinato al potere primo o poi, cercava con avidità e orgoglio di artigliare questo o quel potente, sentendosi un cortigiano del Cinquecento; scrisse un pezzo bellissimo in memoria di Edoardo Agnelli, dolente e dritto, senza la minima traccia di servilità.
E Facci, il men colto dei tre, ma non il più rozzo, rispondeva colpo su colpo alle mie stoccate; io, come il Bienvenu di Hugo, mi guardavo dal profittare nella polemica della mia povertà.
E sono passati gli anni. Il primo, il ragazzo elegante, adesso è un tale di mezz’età dalle guance grassocce, credo sia in televisione. Ferrara, sempre più disperato, predica rabbiosamente a se stesso, in sempre più greve stile. E il Facci, a quanto vediamo, è finito a servire – non disdegnandone lo stile – la Brianza.
Io, seduto al computer, ho ancora le orecchie piene dei ragazzi che hanno invaso casa mia (in realtà, di mia sorella: ma qui crescemmo insieme, cinquant’anni fa) in questi tre o quattro giorni, e ora, finite queste poche righe, mi riaccingo al lavoro, il mio lavoro antico, che non ho mai tradito e che mi piace. Loro debbono rileggere attentamente ogni riga che mandano, perché han dei padroni; e hanno perso lo stile, e sono soli e andati, e sono infelici.
Io, passando davanti allo specchio del corridoio, che non è solitamente mio amico, gli strizzo l’occhio un istante, e gli mostro la lingua. “Ciao, ragazzo!” gli dico spavaldamente. E poi mi siedo a lavorare.