In un suo libro Luciano Mirone li ha chiamati “Gli insabbiati”, “storie di giornalisti uccisi dalla mafia e sepolti dall’indifferenza”.

Più recentemente Claudio Fava ha intitolato “I disarmati” il suo libro su tutti quelli che, con i loro poveri mezzi hanno provato a far la lotta alla mafia, trovandosi isolati sia da destra che da sinistra e stritolati dall’indifferenza. Potremmo chiamare “I diffamati” tutte quelle vittime di mafia sulle quali si è provato a gettar fango, in vita e subito dopo la loro morte. L’esempio di Peppino Impastato è forse il più eclatante: da attivista politico schierato all’estrema sinistra, a terrorista che era saltato in aria con la sua bomba. Lo schema della diffamazione non poteva essere migliore, tanto più che il pazzo voleva far saltare in aria  gli operai che andavano a Palermo col primo treno. Addirittura, per Sciascia, “se di delitto di mafia  si tratta, è un “delitto anomalo”. E solo perché c’era alle spalle un  nucleo di compagni bene organizzato e deciso, la provocazione  non è passata.

Vogliamo parlare di Beppe Alfano? Dopo la sua morte, scrive Mirone: “Uno strisciante tam tam si diffonde con rapidità incredibile: Alfano è stato ucciso per questioni di  donne o di debiti di gioco. Qualcuno parla addirittura di stupro di minorenni e al processo qualche avvocato lo ribadisce. Dice il pentito Maurizio Bonaceto: “Spesso, quando si verificava un omicidio nel barcellonese, veniva fatta girare la voce che si trattava di storie di donne, per nascondere la provenienza e la matrice mafiosa del delitto” (pag. 247).

Ma passiamo a Mauro Rostagno: “Un delitto in famiglia” lo definì il giudice Garofalo, che curò le indagini per  diverso tempo: Rostagno sarebbe stato ucciso a seguito di una sorta di triangolo amoroso che vedeva sua moglie Chicca Roveri essere amante del socialista Cardella, amministratore e finanziatore della comunità “Saman”: Rostagno drogato, scoppiato, sovversivo, forse ucciso dai suoi ex compagni di Lotta Continua o dagli stessi tossicodipendenti della comunità di Lenzi.  Per avviare le indagini  come delitto di mafia consumato dal mafioso trapanese Virga sono dovuti passare 22 anni e c’è voluta in mezzo la testardaggine del giudice Ingroia.

Vogliamo citare Giuseppe Fava? Sin dal primo giorno venne avviata una campagna di delegittimazione con la quale il giornalista veniva dipinto come donnaiolo, incallito giocatore di carte, ricattatore. Perquisita la casa di Fava, la sede de “I Siciliani”, sospettati gli stessi collaboratori di Fava. Indagini ferme per otto anni, fino a quando il pentito Giuseppe Pellegriti e dopo di lui Maurizio Avola non fanno precisi nomi di mafiosi facenti capo a Nitto Santapaola.

Su Mauro De Mauro è stato detto tutto: che era un fascista della decima Mas, che aveva scoperto l’inghippo dietro il delitto di Enrico Mattei, che sapeva molte cose del delitto Tandoy, (un commissario PS assassinato ad Agrigento),  che era a conoscenza della preparazione del  golpe poi fallito di Junio Valerio Borghese, che era rimasto vittima del mondo del traffico degli stupefacenti. Anche qua una catena di depistaggi, mai finita, per tenere lontana la mafia.

Potremmo continuare all’infinito: Placido Rizzotto, la cui fidanzata sarebbe stata amante del suo assassino Luciano Liggio, Cosimo Cristina, giovane giornalista che si sarebbe gettato sotto un treno per delusione amorosa, per arrivare a don Diana, che un’ottusa campagna di diffamazione ha tentato di far passare per prete mafioso.

Perché  questa è una delle regole cardini di Cosa Nostra nei confronti dei suoi nemici: la delegittimazione: è il primo gradino, fatto di fango, di calunnie, di voci messe abilmente in giro, spesso a conferma che tu se colluso con coloro che fingi di combattere: chi non ricorda la “stagione dei veleni” al Palazzo di giustizia di Palermo e le lettere del “corvo” contro Giovanni Falcone? Ci hanno provato persino con Piero Grasso, reo di avere barattato la sua nomina a Procuratore Antimafia con la rinuncia  a indagini che riguardassero i presunti rapporti tra Forza Italia e Bernardo Provenzano. Ma anche il procuratore Messineo, tenace e onesto, è entrato nel mirino dei diffamatori a causa di un suo fratello implicato in presunte vicende di mafia. Per non parlare di Roberto Saviano che, nel suo ultimo libro, “la Bellezza e l’inferno” accenna al calvario di menzogne, accuse indimostrate, illazioni, carognate, dette nei suoi confronti anche attraverso giornali nazionali. Il fango che viene ad arte diffuso, prima da “radio ombra”, poi dai mass media, diventa una sorta di cortina fumogena che allontana l’immagine reale e la sostituisce con quella dei comuni mortali, felici di coinvolgere nella propria mediocrità, nella merda e nella menzogna coloro che cercano di trasmettere un messaggio diverso e più nobile.

La condanna a morte è l’ultima soluzione, quando i mafiosi  si accorgono che non c’è niente da fare.

Salvo Vitale per www.ilcompagno.it

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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