Giustizia spettacolo o spettacolo della giustizia?
La riflessione di Antonio Ingroia, ex pm antimafia e oggi avvocato
Per decenni, quando facevo il PM, sono stato accusato di fare “Giustizia spettacolo”, di inseguire i riflettori e cercare di spettacolizzare le miei indagini e i miei processi. In realtà, spiegavo, non ero io a inseguire i riflettori, erano i media che mi inseguivano e mi cercavano per l’ovvia rilevanza delle mie indagini e processi su fatti di sangue, misteri che sono stati risolti con la individuazione dei colpevoli e dei moventi di quei delitti, come l’omicidio di Mauro De Mauro, il delitto di Mauro Rostagno, l’omicidio dell’ex Agende del SISDE Emanuele Piazza, per dirne solo alcuni, e delle indagini e processi nei confronti di uomini dei Servizi Segreti come Bruno Contrada, di uomini politici di spicco come il Senatore Marcello Dell’Utri, il Sen. Franz Gorgone, il Sen. Vincenzo Inzerillo, di Alti Ufficiali dei Carabinieri come il Gen. Mori e il Gen. Subranni, poi tutti condannati, alcuni con sentenze definitive (Contrada, Dell’Utri, Gorgone, Inzerillo), alcuni al momento solo in primo grado ed in attesa della sentenza d’appello (Mori e Subranni).
I tempi però sono cambiati. Oggi nessuno parla più di “Giustizia spettacolo” per il semplice fatto che – ahimè – lo spettacolo che offre la Giustizia è davvero deprimente. Dal caso Saguto, che ha mostrato l’altro volto di un’antimafia giudiziaria apparente e profondamente corrotta, al caso Maniaci, finalmente chiuso con una sentenza di assoluzione, che ha mostrato l’incomprensibile accanimento verso un giornalista che aveva come unica colpa quella di avere rivolto la sua telecamera d’inchiesta e di denuncia dentro il Palazzo di Giustizia di Palermo, e poi è deflagrato il “caso Palamara” che ha fatto conoscere, da un suo diretto protagonista, testimone, e poi vittima come capro espiatorio, “Il Sistema” delle correnti giudiziarie e della più becera contiguità con la politica che ha condizionato per anni la carriera dei magistrati, spesso premiando i più omologati e conformisti e meno meritevoli, per punire i più meritevoli, coraggiosi e indipendenti, consentendo così di scoprire perché gli Ingroia, i Di Matteo, gli Ardita, i De Magistris, come le Forleo, non hanno mai fatto carriera in magistratura, e qualcuno è stato costretto perfino a rinunciare.
Oggi irrompe il “caso Amara“, un altro caso che consegna un pessimo spettacolo agli occhi dei cittadini che hanno la deleteria, e difficilmente contestabile, impressione che gli uffici giudiziari e perfino le auliche sedi del Consiglio Superiore della Magistratura si sono trasformate in una cosa peggiore del “palazzo dei veleni”, ma veri e propri ring dove si consumano guerre per bande, senza esclusione di colpi. Ed è significativo che in questo contesto si prova a infangare perfino un magistrato integerrimo come Sebastiano Ardita, che ha anche lui una sola colpa, quello di non essere allineato ai diktat imperanti, che non si è omologato, che ha mantenuto la barra diritta, da magistrato inquirente a Catania e a Messina, e poi anche al CSM. E che lo si faccia attraverso una manovra che ha il palese obiettivo di neutralizzare con un colpo solo il Procuratore Capo di Milano Francesco Greco e la parte più irriducibile del CSM, oggi rappresentata da Sebastiano Ardita insieme a Nino Di Matteo. Grave che se ne sia fatto sponda un autorevole magistrato come Piercamillo Davigo che, usando procedure certamente non ortodosse perché non consentite dalle regole e dalla legge, ha di fatto agevolato – e ciò a prescindere dalla sua buona fede – un vero e proprio disegno criminale di cui con la sua indubbia esperienza avrebbe dovuto percepire i lineamenti fin dal suo apparire (la personalità dell’avv. Amara, i suoi trascorsi, i suoi disegni, l’anomalia del percorso che ha fatto arrivare a tutte le redazioni dei giornali ciò che doveva restare segreto e nel coperto delle doverose indagini e verifiche che la magistratura stava effettuando).
Aggiungo che mi paiono assai poco convincenti le giustificazioni che Davigo ha offerto a mezzo stampa specie quando ha detto (addirittura!) che ci sono casi in cui “non si possono seguire le vie formali”!!! Detto da un magistrato che deve SEMPRE rispettare le regole è un’affermazione gravissima, visto – fra l’altro – che l’ordinamento prevede le particolari regole e cautele di riservatezza che possono e devono essere osservate per denunciare certi fatti mantenendo la totale riservatezza sulle notizie stesse. Regole e cautele che colpevolmente Davigo non ha osservato. Il risultato comunque è che la magistratura e la giustizia stanno offrendo ai cittadini un pessimo spettacolo della giustizia. Altro che Giustizia spettacolo!
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