Giornata della donna o festa della donna?
Questo articolo è stato scritto l’8 marzo 2011 e pubblicato su Antimafia Duemila. Da allora ben poco è cambiato, la crisi continua ad attenagliare i bilanci delle famiglie e le donne ne pagano gravemente il peso, in termini di posti di lavoro. Da qualche anno i mass media hanno identificato, come tema di discussione, quello che con un brutto termine è stato chiamato “femminicidio” e, in modo più esteso, il problema della violenza sulle donne che ancora, in un gruppo di stati dove vivono 500 milioni di persone, non è considerata un reato. Quest’anno, da parte di molte autorevoli voci femminili si è proposto di abolire questa “giornata”, che spesso diventa folkloristica e formale, senza intaccare minimamente il problema delle pari opportunità, della parità dei ruoli e dei salari, degli stupri, dell’uso strumentale del corpo e della bellezza femminile. La giustificazione è sempre la stessa: la giornata della donna dovrebbe essere festeggiata 365 giorni l’anno. Sul blog Kiwiland leggiamo: “Le donne non sono migliori degli uomini. Ma nemmeno inferiori. Quindi smettiamola di celebrare la donna, ricordiamoci piuttosto tutti quanti che la donna sta lottando ancora oggi per i suoi diritti, e facciamo qualcosa”. Quindi, più che gli auguri è il caso di fare un doveroso omaggio e un atto d’amore all’altra parte del cielo.
Le femministe degli anni ‘70 ci tenevano a dire che l’8 marzo è la giornata della donna e non la festa della donna. Dietro questa data esistono versioni diverse. La tradizione socialista faceva risalire l’origine di questa giornata al grande sciopero parigino dell’8 marzo 1848. In Italia, a partire dagli anni 50 cominciò a diffondersi una versione diversa. Nel 1952 il settimanale bolognese “La Lotta” scrisse che la data si riferiva a un incendio scoppiato in una fabbrica tessile di New York l’8 marzo 1929, in cui sarebbero morte 129 giovani operaie, in gran parte italiane ed ebree, che minacciavano uno sciopero e che, per ritorsione, erano state fatte chiudere dentro dal padrone, il quale avrebbe poi ordinato di dar fuoco alla fabbrica. Nel 1978 troviamo sul giornale “Il Secolo XIX” che l’episodio era successo a Chicago, mentre, qualche anno dopo, nel 1980, “La Repubblica” scriveva che l’incendio era successo a Boston nel 1898. In tempi più recenti, nel 1982, sul giornale “Noi Donne” è stato scritto che l’incendio era effettivamente scoppiato a Boston, ma nel 1908 e che le operaie morte sarebbero state 19. Da altre fonti sappiamo anche che la fabbrica era l’industria tessile Cotton e che il proprietario sarebbe stato un certo mister Johnson. Ebbene, da tutte le ricerche effettuate non esistono prove e documenti che confermino questo orribile episodio. Secondo Piero Errera il falso storico sarebbe stato inventato e diffuso dalla stampa comunista ai tempi della guerra fredda, per dimostrare la cattiveria del capitalismo americano. Di sicuro si sa che nel 1911, cioè un anno dopo la data d’inizio della “festa”, a New York, nella Triangle Shirtwaist Company, scoppiò un incendio, non doloso, che, favorito dalle scarse condizioni di sicurezza e d’igiene della fabbrica, causò 140 morti, non tutte donne, I proprietari della fabbrica Max Blanck e Isaac Harris, vennero prosciolti nel processo penale ma persero una causa civile. Ma soprattutto l’8 Marzo non ha nulla a che fare né con lo sciopero delle lavoratrici, che iniziò il 22 Novembre 1909 né con l’incendio della fabbrica, che avvenne il 25 Marzo 1911.
Il richiamo a un tragico fatto, sulla cui esistenza esistono seri dubbi, sarebbe già sufficiente a proporre la data dell’8 marzo come una giornata di riflessione sull’eterna questione femminile e non come una festa. Passati gli anni 70 le donne non sfilano più in corteo e le più assatanate non gridano più “L’utero è mio e me lo gestisco io” oppure “Maschio represso, ti taglieremo il sesso”. Anche perché ci sarebbe da discutersela. Una falsa concezione del rapporto uomo-donna una volta tendeva a generare conflittualità interna ai due sessi, senza accorgersi che la conflittualità è tra le classi sociali, indipendentemente dal sesso. Così è rimasta la questione delle pari opportunità, Sono rimasti enormi vuoti nell’occupazione femminile e nella creazione di strutture che permettano alle donne di esplicare il loro doppio ruolo di madri e di lavoratrici. In politica è ancora enorme lo strapotere maschile e il modello maschile, quello di chi porta i pantaloni, rimane ancora il punto di riferimento per molte donne che vogliono far carriera.
Sul “Corriere della sera” del 9 marzo 2011 c’era un articolo in cui Stefania Sandrelli diceva che il tempo delle cene, lasciando per una sera i mariti a casa, è finito e che bisogna fare i conti con la crisi, della quale le donne stanno pagando in maggior misura lo scotto.
L’esibizione del rametto di mimose o l’occupazione festosa delle pizzerie, lasciando il marito a casa sono aspetti folkloristici che nascondono invece problemi vecchi di secoli e ancora oggi irrisolti, sulle pari opportunità e sui modelli educativi che regolano il rapporto uomo-donna.