A questa crisi di civiltà – non la prima e probabilmente non l’ultima, ma la peggiore dopo i Grandi Macelli del Novecento – si aggiungono in Italia due fattori specifici, il nostro peculiare contributo alla condizione umana. Il primo è il sistema mafioso, nato nel nostro sud e dilagato al nord. Il secondo è il fascismo, calato dal nord al sud, specularmente. Entrambi hanno infettato, in forma più o meno virale, altri paesi.
Noi, qui ai Siciliani,abbiamo purtroppo qualche esperienza nell’affrontare almeno uno di essi. Abbiamo dovuto dare un’importanza decisiva alla lotta antimafia, che abbiamo presto individuato, con maestri come Pippo Fava, come un fondamentale problema sociale. Abbiamo anche capito che esso non è risolvibile da una singola forza parziale, nè dalla buona volontà di qualcuno, ma richiede movimenti di massa, unitari e decisi, di portata epocale.
La nostra insufficienza è quindi la prima scoperta che abbiamo fatto; la seconda, la necessità di unirci ad altri, di “fare rete”. Che è, in questo momento difficile, con poteri e governi non certo antifascisti nè antimafiosi, il nostro appello.
Un momento difficile, ma non disperato. Non è un paese fascista, nè mafioso. È un paese disgregato e confuso, ferito da troppe delusioni e promesse, ma tutto sommato ancora sano. Un paese antichissimo e umano, fondato su valori che magari non sa più di avere ma che profondamente, a suo dispetto, possiede. Come potremmo essere dei razzisti seri, noi massa di tanti popoli fusi insieme? Possiamo certo inventare, in un momento di crisi, un fascismo; ma anche sbarazzarcene resistendo. La mafia è nostra: ma lo è di più l’antimafia. Fava non fu un isolato ma il segno, con altri simili, di una generazione.
Così, noi non chiamiamo alla protesta né alla rassegnazione, ma alla costruzione determinata e continua di un altro mondo. Un mondo umano, possibile, buono per tutti. Coraggio e tenerezza – donne e uomini, nell’ordine nuovo degli affetti – ci accompagnino insieme in questa prova di secolo, futura umanità.
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