Il DL 164/1991, recante Misure urgenti per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali e degli organi di altri enti locali, conseguente e a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso ha introdotto, modificando precedenti disposizioni, le norme sullo scioglimento degli enti locali, ulteriormente aggiornate dal D.L 267 del 2000. La procedura parte dalle relazioni e richieste delle forze dell’ordine trasmesse al Prefetto, il quale dispone i relativi accertamenti nominando un’apposita Commissione. Ultimati i lavori i commissari trasmettono la relazione al prefetto, il quale, ove riscontri gli estremi dello scioglimento, inoltra la proposta al Ministro degli Interni; a sua volta il Ministro la trasmette al Consiglio dei Ministri, il quale sottopone la richiesta approvata alla firma del presidente della Repubblica. Da quel momento scatta la nomina dei commissari governativi, che operano dai 12 ai 18 mesi, prorogabili a 24 prima che si vada a nuove elezioni, alle quali non sono ricandidabili solo alcuni consiglieri specificamente indicati previa dichiarazione del tribunale civile, coinvolti in rapporti di collusione con le consorterie mafiose per lo più locali.
La sanzione dello scioglimento è giustificata dalla straordinarietà, poiché interviene sull’autonomia degli enti locali e su rappresentanti della volontà popolare regolarmente eletti ma la Corte Costituzionale, con sentenza n.103 del 1993, puntando su una forzatura giurisprudenziale motivata dall’emergenza a causa della criminalità mafiosa, ne ha sancito la costituzionalità.
Condizione per lo scioglimento è l’individuazione di elementi concreti, univoci e rilevanti: la legge concede un margine di ampia discrezionalità nell’individuazione di questi elementi, e non richiede la presenza di reati perseguibili penalmente oppure l’applicazione di misure di prevenzione, ma diventa operativa quando si riscontrano infiltrazioni o intimidazioni ad opera delle cosche che operano sul territorio, nei confronti degli amministratori locali. In tal caso, per una strana anomalia, si mandano a casa i consiglieri comunali, che potrebbero essere vittime, e non si procede penalmente nei confronti dei protagonisti mafiosi. Bastano indizi documentati e comunque confermati in più occasioni, concordanti, al di là del riscontro di qualche prova rigorosa di coinvolgimento degli amministratori.
In genere chi compila la prima relazione, la quale viene poi quasi sempre riportata nelle successive redazioni, si sofferma sul clima di intimidazione e omertà che caratterizza la vita locale, sulle irregolarità nella gestione degli appalti (settore privilegiato è quello dei rifiuti), sulla mancata applicazione delle normative del codice antimafia, e quindi su eventuali affidamenti a ditte colpite da interdittiva della prefettura. L’interdittiva vale anche, come successo a Partinico, quando è stata emessa dopo i contatti relativi ai momenti in cui è stato commesso il fatto. In linea di massima si ricostruiscono parentele, procedimenti penali passati o in itinere, motivazioni nascoste o sospette dietro le delibere dei consigli comunali, nel tentativo, spesso ipotizzato e non provato, di contatti con la criminalità organizzata, rilevabili per lo più da intercettazioni. Il dato che emerge, nella quasi totalità dei casi, è che a pagare non è nessuno e che, malgrado copia delle relazioni di scioglimento sia inviata alle Procure della Repubblica, non sono attivati procedimenti penali nei confronti dei presunti responsabili, chiara dimostrazione questa che non ci sono i presupposti per avviare l’iter processuale. Idem dicasi per la macchina comunale, ovvero per l’insieme dei dipendenti e dirigenti amministrativi, che rimangono al loro posto o che, tuttalpiù sono spostati da un settore all’altro senza subire decisioni o sanzioni punitive.
Dal 1991 al 2020 sono stati sciolti 338 Consigli comunali per infiltrazioni mafiose, di cui 25 annullati a seguito di ricorso. Di questi in Calabria sono 117, in Campania 107, in Sicilia 82, in Puglia 18, pochi altri nelle restanti regioni d’Italia. Gli scioglimenti possono essere motivati anche da altre cause, come la sfiducia al sindaco e la mancata approvazione del bilancio. Attualmente in Sicilia sono 12 i Comuni sciolti per vari motivi, soprattutto per questioni politiche o per mancanza di bilanci, mentre il il 52% degli scioglimenti degli enti comunali è avvenuto per infiltrazioni mafiose. Attualmente, secondo un dato dell’aprile del 2020, a cura della fondazione Openpolis sono 25 i Comuni dell’Isola commissariati e ben 13 hanno subìto le pressioni della criminalità organizzata, con la più alta percentuale a livello nazionale.
Nel 2019 nella provincia di Palermo sono stati tre i comuni sciolti per infiltrazioni mafiose: San Cipirello (il 20 giugno del 2019), Torretta (l’8 agosto del 2019) e Mezzojuso (il 16 dicembre 2019). Anche nella provincia di Catania sono stati tre i comuni sciolti per mafia: Trecastagni (l’11 maggio 2018), Misterbianco (l’1 ottobre 2019) e Maniace (il 16 maggio 2020). Nella provincia di Agrigento sono stati sciolti Camastra (2018) e San Biagio Platani (2018), in quella di Caltanissetta Bompensiere (2018) e San Cataldo (2019), nel messinese Mistretta (2019), nel ragusano Vittoria, nel siracusano Pachino. In genere si tratta di comuni con popolazione inferiore ai 5000 abitanti, nei quali è più facile individuare il fitto reticolo di parentele e il modo di muoversi e agire dei mafiosi locali. Sullo scioglimento di Scicli è intervenuto anche il presidente della Commissione Regionale Antimafia Claudio Fava, ritenendolo immotivato.
In provincia di Palermo c’è una storia più complessa che ha coinvolto in passato diversi comuni, come Cinisi, sciolto 20 anni fa, si disse per volontà di Alfano nei confronti di una giunta di centrosinistra, Giardinello e Altavilla Milicia, dove il TAR aveva accolto i ricorsi contrari allo scioglimento, poi confermato da decisioni istituzionali, Borgetto, dove invece il TAR aveva ritenuto motivato lo scioglimento, comunque confermato diciamo “a tavolino”, malgrado, in un pubblico processo contro Pino Maniaci il pm Amelia Luise abbia recentemente sostenuto che i comuni possono essere sciolti anche per “sospetti” di infiltrazione, senza che questo determini la colpevolezza di sindaci o consiglieri. Gli scioglimenti più recenti sono stati quelli di Corleone, Sancipirello, dove i Commissari hanno chiesto una proroga di due mesi, e ultimamente quello di Partinico, ma già i Commissari ispettivi sono arrivati a San Giuseppe Jato e qualche altro Comune sente sul collo il fiato dell’ispezione.
Un caso a parte è quello di Partinico, comune in dissesto finanziario, dove, dopo le dimissioni del sindaco De Luca (3 maggio 2019) si è installato nel giugno 2019 un commissario regionale, sino all’arrivo dei tre ispettori governativi, che hanno esautorato il commissario, a seguito dello scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose.
Inevitabile una riflessione: per giustificare lo scioglimento basta il fumus, cioè la costruzione di un insieme di elementi finalizzati alla proposta, ma che non ha alcuna rilevanza penale e che, per contro, espone consiglieri comunali, abitanti, dipendenti all’infamante accusa non dimostrata, o dimostrata attraverso forzature pretestuose, di collusioni mafiose, alle quali si fa ricorso, anche ricostruendo lontane presenze, che hanno caratterizzato le vicende lontane di alcuni comuni e che sono ormai scomparse o che stanno scontando le loro colpe nelle patrie galere o ai domiciliari.
Una vicenda simile, se non parallela si verifica per quel che riguarda l’applicazione dei sequestri e delle confische portate avanti dalle misure di prevenzione, che hanno un loro percorso sganciato dai procedimenti penali e che spesso portano al paradosso del sequestro confermato, rispetto all’assoluzione penale da ogni accusa, oppure alla restituzione del bene sequestrato, ma non più nelle condizioni economiche di quando è stato sequestrato. In entrambi i casi vale la cosiddetta “legge del sospetto”, che ha le sue lontane origini ai tempi dell’inquisizione e che è stata poi messa in atto durante la Rivoluzione francese. Se è vero che “il sospetto è l’anticamera della verità”, il sospetto non è la verità, ma, nel caso dei sequestri, diventa lo strumento di prevenzione al quale ricorrere in attesa dell’accertamento della verità, nel caso degli scioglimenti, ove si escluda la possibilità di ricorso al TAR, diventa una “misura” punitiva alla quale è difficile sottrarsi. Sarebbe auspicabile in tal caso un raccordo tra i vari rami della giustizia, nello specifico quello amministrativo, quello penale e quello politico, prima di procedere con drastiche decisioni.
Tali misure nate nel momento dell’emergenza e in situazioni nelle quali i boss mafiosi dimostravano il loro potere e la loro capacità di controllo, ottenendo spesso assoluzioni, malgrado certe visibili ostentazioni di reato, oggi andrebbero rimodulate, non tanto per cambiare le leggi, a cominciare dalla Rognoni La Torre, che nessuno vuol mettere in discussione, ma per arrivare a una equilibrata e precisa individuazione della colpevolezza prima di procedere a decisioni che sospendono le scelte di democrazia in mano ai cittadini, e il loro diritto ad essere amministrati non da funzionari che hanno i poteri del podestà fascista, ma da rappresentanti regolarmente eletti. I tempi non sono più quelli di una volta e l’uso politico dello scioglimento non sempre produce i risultati proposti, sia perché penalmente non paga nessuno, sia perché alle successive elezioni comunali si ritroveranno le stesse persone a contendersi le cariche comunali.
Tratto da antimafiaduemila.com
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