Ai tempi della Repubblica, Ferdinando Imposimato fu magistrato, e in questa veste cercò di difenderla – conforme al giuramento – e di far luce sui tentativi di ucciderla, che allora non andarono – per il momento – a segno.
Non era fra i magistrati che io vedevo più spesso, quindi non mi aspettavo – un anno fa di questi tempi – la sua telefonata di adesione alla campagna che alcuni giovani colleghi, Luca Salici in testa, avevano lanciato in quei giorni per un riconoscimento pubblico del mio lavoro. Che però, a mia insaputa, egli aveva sempre seguito molto attentamente, soprattutto a proposito dei rapporti fra mafie, poteri pubblici e massoneria. Mi colpì l’accuratezza con cui citò, in questa e altre conversazioni, mie vecchissime inchieste sui viaggi di Falcone in America, sui depistaggi postumi tentai, e sulle reazioni inconsulte di alcuni poteri alle inchieste. Napoletano di provincia – casertano, mi sembra – e dunque signorile e acuto, forte testa e gran cuore; volle appoggiare la campagna, concretamente, e farmi ancora l’onore delle sue conversazioni.
Non eravamo vicini, politicamente; o forse sì, dal momento che per entrambi i valori fondanti – onore, impegno civile, servizio collettivo – erano quelli antichi, degli uomini del vecchio secolo e specialmente di sinistra.
Aveva perduto un fratello, assassinato dalla camorra. Dei suoi temi specifici, il più utile forse fu la sua trattazione del caso Moro, non riconosciuta dalle istituzioni ma incisa nell’opinione pubblica, sì da rendere senso comune la partecipazione straniera – di non amichevoli “alleati” – a quello che fu l’inizio della fine per la Repubblica democratica nata dalla Resistenza.
Ad essa, più che alla persona fisica di Imposimato, va, ricordando lui, il nostro acerbo rimpianto. L’uomo fu fortunato, di vita lunga e coraggiosa e utile, servitore di ideali che meritavano di essere serviti. Ma è la Repubblica che piangiamo, oggi che non c’è più neanche Imposimato.
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