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Famiglia Amodeo di Alcamo, ovvero i sequestri non finiscono mai

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Torniamo a parlare di beni sequestrati e confiscati

Il 3 aprile 2019 è stato reso noto un provvedimento di confisca di beni, per un valore di 40 milioni di euro nei confronti di Giuseppe Amodeo, 64enne imprenditore di Alcamo, e dei sui familiari. Il provvedimento, notificato dalla DIA, è stato disposto dalla Corte d’Appello di Palermo – Sezione V Penale e Misure di Prevenzione.

Quella di Giuseppe Amodeo, uno dei più importanti imprenditori di Alcamo nel settore dell’edilizia e delle costruzioni di infrastrutture, è una storia che inizia una sentenza del tribunale di Trapani, di sequestro di tutti i suoi beni, datata 6 dicembre 2013, ma che ha origini più lontane, nel luglio 1998, allorché, nel corso di un’operazione di polizia denominata R.I.N.O.3. Amodeo venne arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, con il sequestro preventivo dei beni immobili, in particolare di una società, Il Melograno. L’imputazione faceva seguito alle rivelazioni di due collaboratori di giustizia, Giuseppe Messina, commercialista del capo-mandamento di Trapani Vincenzo Virga, e Vincenzo Sinacori, uomo d’onore della famiglia di Mazara del Vallo. Messina sosteneva che Amodeo era vicino al Virga, ma anche amico dell’aspirante, poi eletto, sindaco di Trapani Mario Buscaino, mentre Sinacore sosteneva che Amodeo era a disposizione dei Melodia di Alcamo e sarebbe stato latore di messaggi mafiosi. Secondo le indagini Virga sarebbe stato socio occulto di Amodeo e di altri imprenditori del trapanese in alcune attività di speculazione edilizia.

Amodeo ammetteva alcune conoscenze, ma negava rapporti d’affari con i mafiosi: avrebbe solo ricorso alle forniture della Calcestruzzi Ericina, allora sotto il controllo di Virga. Il 7 dicembre dello stesso anno, con un’ordinanza del giudice Gioacchino Scaduto, del Tribunale di Palermo, Amodeo veniva scarcerato per “il venir meno di qualsiasi indizio”, ammettendo solo “una generica vicinanza alle famiglie mafiose di Trapani e di Alcamo”, anche perché i due pentiti che lo accusavano, Sinacore e Messina, si erano rivelati poco precisi e poco attendibili.

Le indagini preliminari erano durate sei anni, tra le più lunghe sinora fatte in Italia. Amodeo, pur di continuare a far lavorare i suoi figli, consigliato dai suoi legali scelse allora il patteggiamento e ne venne fuori con una condanna per favoreggiamento personale continuato a un anno e quattro mesi di reclusione. Ne era seguita una sentenza di dissequestro dei beni, firmata dal giudice Fabio Licata, del tribunale di Palermo nel 2004 e confermata nell’aprile 2005 dal tribunale di Trapani, misure di prevenzione, in quanto non esistevano i presupposti e non era stata dimostrata la provenienza illecita dei beni, in particolare della Amodeo costruzioni srl, della Novaedil e della Società Semplice. È possibile che, se Amodeo avesse aspettato l’esito del normale processo, sarebbe stato assolto e prosciolto.

Più complicata e non del tutto chiarita, la vicenda dell’acquisto di alcuni terreni di alto valore commerciale, a Calamancina, vicino San Vito Lo Capo, appartenente alla società Sicania, sotto il controllo di Vincenzo Virga, a Macari, pure vicino San Vito e a Montagna di Alcamo. Secondo le ricostruzioni investigative, l’Amodeo e la moglie, Francesca Impellizzeri, avrebbero fatto da prestanome a Vincenzo Virga, non essendo stata dimostrata la provenienza della somma servita all’acquisto. Sembrava finita. La famiglia Amedeo faceva una scelta di legalità decisa, aderiva a Libero Futuro, praticava il consumo critico, partecipava alle manifestazioni per la legalità, mentre Giuseppe Amodeo da ormai dieci anni agisce in stretto contatto con le forze dell’ordine, le ha informate di qualsiasi passo o di qualsiasi contatto che eventuali mafiosi potevano intrattenere con lui, al punto da denunciare anche una richiesta di estorsione da parte del cugino di Matteo Messina Denaro, Mario. In pratica un percorso, attestato anche da dichiarazioni del capo della Squadra Mobile di Trapani Giovanni Leuci, che ha consentito di portare avanti diverse operazioni antimafia nel trapanese.

Nel frattempo le figlie hanno lavorato prima alla costruzione di una struttura alberghiera a Castelvetrano, nel regno di Matteo Messina Denaro, poi a un progetto di un centro commerciale, su un terreno di loro proprietà, che avrebbe creato 300 posti di lavoro, con una serie di possibilità di agevolazioni per i giovani imprenditori che avessero scelto di lavorare nel centro. Tutto veniva fatto secondo i più rigidi protocolli di legalità, seguito strettamente dai legali di Libero Futuro, in perfetta sintonia con le forze di polizia locali, quando nel 2013, come un fulmine a ciel sereno, venne decretato un altro sequestro di tutti i beni della famiglia. Il pm di Trapani Andrea Tarondo inoltrò una richiesta di dissequestro,  sottoposta  al parere del collegio giudicante, il quale nominò  due periti che avrebbero dovuto consegnare la relazione entro 90 giorni, cui seguirono diverse altre proroghe di  90 giorni, sino ad arrivare alla decisione del decreto di confisca. Il Tribunale di Trapani – Sezione Penale e Misure di Prevenzione – ordinò il sequestro dell’intero patrimonio di Amodeo, ma al termine del procedimento, nel giugno 2016, dispose la sola confisca di beni per un valore equivalente a due milioni di euro. Davanti al ricorso presentato dalla Procura di Palermo, la Corte d’appello ha ribaltato la sentenza e disposto la confisca dell’intero patrimonio, che comprende, fra l’altro 159 immobili tra terreni e fabbricati sia ad uso abitativo che ricettivo, partecipazioni societarie, beni mobili registrati e disponibilità finanziarie.

In mezzo c’è stata la gestione dell’amministratore giudiziario nominato dal tribunale, avv. Pietro Bruno, del quale venne chiesta e ottenuta la revoca, nei confronti del quale furono fatti diversi riscontri relativi alla “distribuzione” di autovetture, autocarri e mezzi di lavoro a enti amici, venne notato che non aveva sottoposto, come faceva il titolare, i contratti e le assunzioni all’associazione antiracket del posto, che aveva sostenuto incredibili inutili spese, come il noleggio di un trattore, malgrado la disponibilità dei trattori dell’azienda, in pieno funzionamento. Addirittura il terreno destinato alla costruzione del centro commerciale era stato affittato come terreno agricolo, mentre rimaneva chiusa e inattiva una elegante sala ricevimenti. Alla fine  sembrava tutto risolto: la famiglia Amodeo si era attivata nella gestione dell’Esperidi Park Hotel di Castelvetrano, una struttura alberghiera con l’annessa sala ricevimenti, situata lungo la strada che conduce al parco archeologico di Selinunte. Non sono mancati attentati e intimidazioni, soprattutto dopo la pubblicazione, nel 2015, sul giornale La Repubblica, di alcune registrazioni secretate, nelle quali Amodeo affermava di volere Matteo Messina Denaro morto. Invece di attivare la protezione per coloro che si erano schierati a difesa della legge, le notizie erano state passate ai giornalisti, esponendo Amodeo a rischio di vita.

In tempi più recenti Amodeo, è stato condannato per truffa ai danni dello Stato e della Comunità Europea per aver illecitamente percepito finanziamenti pubblici destinati alla realizzazione di attività imprenditoriali nel settore turistico. Gli avvocati degli Amodeo Baldassare Lauria e Paolo Paladino, hanno impugnato il provvedimento ritenendo in esso presenti diverse violazioni di legge e hanno ricostruito il percorso di estraneità con esponenti mafiosi, respingendo le accuse di contiguità e citando a suo favore la costante collaborazione con le forze dell’ordine e con le associazioni antiracket portata avanti dalla famiglia e  gli interventi di diversi funzionari dello stato, come il Capo della squadra mobile di Trapani, Giovanni Leuci, il Dirigente della DIA di Trapani, colonnello Rocco Lo Pane, e Giuseppe Linares, direttore del servizio centrale anticrimine del Viminale. I legali fanno anche riferimento a una recente sentenza della Corte costituzionale (24/2019) che subordina ogni misura limitativa della libertà personale o di compressione del diritto di proprietà privata ad elementi e norme che ne giustifichino l’applicazione e non su “valutazioni generiche e nebulose, riconducibili a categorie indefinite come ‘traffici delittuosì et similia”, che sembrano avere trovato spazio anche in questo procedimento”.

La vicenda degli Amedeo ha tutti gli elementi che evidenziano i limiti della legge sulle misure di prevenzione e le differenti, spesso arbitrarie o contradditorie applicazioni che di essa fanno gli investigatori e i magistrati:

  • possibilità di prolungare all’infinito i procedimenti. Malgrado provvedimenti di assoluzione o restituzione, la Procura può procedere all’Appello, a un nuovo sequestro, si possono sequestrare solo parti del patrimonio, restituirne altre, salvo poi risequestrarle, riconsegnarle, confiscarle, in primo o in secondo grado, appellarsi alle confische, ottenerne la revoca da parte dei proprietari e subire altri procedimenti d’appello dalle Procure. Insomma una spirale perversa, una sorta di spada di Damocle che pesa e peserà per sempre sul “preposto”, sulla sua famiglia, sui suoi eredi e su tutti coloro che hanno nel mirino l’appetibilità di un patrimonio in rapporto a personali obiettivi legati al far carriera, al rispettare i budget di provvedimenti da eseguire, a costruire intorno all’azione dei magistrati la giusta cornice di antimafia, con la collaborazione di giornalisti e blogger disponibili alla circolarità delle notizie e a costruire un’immagine;
  • scarsa o nulla considerazione del percorso di “pentimento” del soggetto nel mirino, della sua collaborazione, degli elementi offerti per ulteriori procedimenti nei confronti delle cosche mafiose delle quali l’imprenditore è stato vittima o, secondo altre chiavi di lettura, complice. Nessuna attenzione all’attività di soggetti che, schierandosi apertamente con le associazioni antiracket hanno messo a rischio le loro attività. Sono stati, in più casi usati gli elementi offerti dal denunciante, anche quelli che lo riguardavano in prima persona, per procedere contro di lui, con la valutazione della collaborazione come espediente per sfuggire al sequestro. Il caso di Libero Futuro, ritenuta associazione non affidabile dal prefetto di Palermo è una chiara dimostrazione e finisce con lo scoraggiare qualsiasi imprenditore nel voler portare avanti un percorso di collaborazione o di ravvedimento. Per non parlare della mancanza di misure di protezione, che vedono spesso l’imprenditore abbandonato a se stesso ed esposto a qualsiasi ritorsione;
  • disastrosa amministrazione dei beni sequestrati, nei confronti dei quali l’amministratore giudiziario agisce non come se si trattasse di qualcosa di proprio, ma di una “terra di conquista” da cui spremere tutto il possibile in nome di quella legge di cui egli stesso dovrebbe essere garante.

“Mi sembra di vivere in un mondo che gira al contrario – ha dichiarato la moglie di Amodeo – se non mi fossi schierata così apertamente contro la mafia, oggi non sarei qui, ma credevo che le cose fossero cambiate e che era arrivato il momento di fare la differenza”.

Conclusione: lo stato non riesce a salvaguardare chi si espone, o forse non ne ha voglia. Le due figlie e la moglie, anch’esse coinvolte nel sequestro dei beni, si sono definite “vittime dello Stato e della mafia”. Tutto questo nella città e nella terra dell’imprendibile Matteo Messina Denaro, la cui cattura, secondo quanto dichiarato da Salvini, dovrebbe essere imminente.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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