Sono iniziati da qualche giorno i colloqui degli esami di stato. Una volta si chiamavano “esami di maturità” e, in effetti il concetto di “maturità”, sia dall’aspetto delle conoscenze, che da quello di una personale “visione del mondo”, capacità di giudizio critico, rielaborazione soggettiva dei contenuti studiati, era più pertinente per definire una prova che spesso coincide con il raggiungimento dei diciotto anni, cioè della maggiore età. Si è voluti tornare alla denominazione più severa di “esame di stato” per ratificare con una definizione, più che con una prova, la prima presenza, il primo contatto dei ragazzi con l’istituzione, con la quale, ci si troverà poi costantemente a fare i conti. Di lì la prima caratteristica dell’esame come spauracchio, come momento in cui incertezze, sicurezze, abilità saranno messe a dura prova da quattro estranei spediti a essere i tuoi giudici.
“In bocca al lupo”, “in culo all’elefante”, sono gli auguri più frequenti che danno la dimensione del giudizio sulla commissione giudicatrice.
Nel corso degli ultimi cinquant’anni gli esami hanno cambiato e ricambiato aspetto: prima la commissione era composta interamente da membri esterni, escluso il membro interno, nominato come “avvocato difensore” dei ragazzi. L’esame verteva su tutte le materie, addirittura, in qualche edizione, anche con i riferimenti ai programmi degli ultimi tre anni; successivamente, nell’ambito della “descolarizzazione” post-sessantottesca, si passò a un esame con due prove scritte e un colloquio nel quale il candidato poteva scegliere due materie, e le altre due erano assegnate dalla commissione. Ci fu un momento in cui, nella smania di stravolgere tutto e arrivare al fallimento totale della scuola di stato, si affidò il giudizio a tutta la commissione di membri interni, con il presidente unico esterno: una pacchia per gli istituti privati, almeno per quelli “paritetici”. Ultime novità sono state quelle della commissione metà interna e metà esterna, tre prove scritte, tra cui una terza prova su cinque materie, ( quiz a risposta libera o a scelta multipla, in parte pre-organizzati, assieme agli studenti, dai docenti interni, almeno per quel che compete le loro materie), e un colloquio su tutte le prove, pilotato, in gran parte da un “percorso” scelto dal candidato, una sorta di tesina interdisciplinare. I tre interni, una volta che gli alunni sono stati ammessi, non hanno alcun interesse a bocciarli, salvo avvenimenti eclatanti, crolli psicologici, copiature dei compiti, individuazione di cellulari, assenze ingiustificate, insulti ecc. I tre esterni e il presidente, quasi sempre si associano, pur non rinunciando a qualche smania esibizionistica, rispetto a quanto deciso dai membri interni. Questo motiva l’esiguo numero di “non promossi” all’esame di stato.
Da sempre, accanto alla componente scritta e orale esiste un terzo indispensabile elemento che fa parte, a pieno titolo, dell’esame, la raccomandazione. Una volta pubblicati i nomi dei componenti esterni della commissione, si scatena la caccia a chi li conosce, siano essi amici, parenti, colleghi, preti, uomini in divisa, si predispone la tattica di avvicinamento, di consegna del pizzino con il nome e cognome del candidato e, nei casi più sfacciati anche con le domande da chiedere all’orale. La caccia comprende anche tutte le notizie biografiche sul commissario, le sue simpatie ideologiche, la sua preparazione, il tipo di argomenti che predilige o che può chiedere. Tramite Facebook, dopo qualche giorno gli esaminandi sanno tutto dell’esaminatore attraverso i messaggi dei suoi alunni. Da alcuni anni lo stato, per non pagare salate missioni ai commissari provenienti da lontano, preferisce nominare professori del posto, pagabili con la diaria giornaliera, (pari a circa 290 euro netti per una ventina di giorni) ma più esposti ad essere raggiunti dalle “segnalazioni”.
Nel fatidico giorno della prima prova scritta, sino a qualche anno fa buona parte dei genitori si affollava ai cancelli della scuola, nell’attesa e nella speranza che uscisse fuori qualcosa, il titolo del tema o il testo del problema, per trovare un esperto della materia pronto a trovare lo svolgimento o la soluzione, e poi fare “entrare” il compito svolto. Oggi i cellulari più sofisticati fanno miracoli e le tracce sono già presenti in internet pochi minuti dopo essere state dettate.
La “correzione”, rinominata “revisione” dei compiti, rinominati “elaborati”, dura da tre a cinque giorni: teoricamente dovrebbe essere collegiale, cioè tutta la commissione dovrebbe partecipare alla lettura e al giudizio dato al compito, ma in realtà i commissari si dividono in due sottocommissioni, una scientifica e una letteraria e con invidiabile disinvoltura leggono, segnano in rosso o in blu, scrivono e sottoscrivono il giudizio e alla fine ratificano consentendo ai membri interni qualche limatura, tipo l’eliminazione di un “quasi”, il cambio di un “non del tutto” con un “non interamente”, di un “pienamente” con un “abbastanza” e altre amenità di questo tipo. Il “quizzone”, ovvero la terza prova, preparata dalla commissione e non dal ministero, negli ultimi tempi è quello che fa abbassare la media, poiché i candidati non sono capaci di rispondere a tutte le domande. Una volta corretti i compiti, con un massimo di 15 punti a prova, e quindi con una cifra che parte da 45 per i geni e scende via via, si appendono i risultati all’albo e si fissa il diario degli orali.
Il colloquio è la parte più spettacolare: i sei membri della commissione, più il presidente, sono seduti dietro a un tavolo, come una vera e propria giuria, mentre il candidato a stento riesce a stare in piedi per l’emozione e, in qualche caso crolla qualche minuto dopo essersi seduto. Tra il pubblico, anche se non sempre, al gran completo, trepidanti, parenti, aspiranti fidanzati, amici e compagni di scuola. Il colloquio procede, in rapporto alle doti espressive e alle cognizioni del candidato, attraverso la discussione del percorso da lui scelto, la sofferta e sudata tesina, che dovrebbe consentire collegamenti interdisciplinari, i quali invece si rivelano autentiche forzature prive di alcun collegamento logico. Seguono le domande disciplinari, nelle quali, il presidente si intromette per dare mostra del suo incommensurabile sapere, la discussione sulle prove scritte, l’immancabile domanda finale: “dove hai intenzione ti iscriverti?”. Alla fine il candidato, anche se ha fatto pena, è accolto come un eroe tra abbracci e baci, da parte dei suoi sostenitori: per le ragazze non mancano mazzi di fiori. In qualche caso qualcuno più sfacciato, si appresta a fare arrivare alla commissione, riunita in segreto per decidere il voto finale, una “guantiera” (un vassoio) con gelati, brioches e bibite varie: in ogni caso, la pausa giornaliera della commissione per la “merenda” è un passaggio obbligatorio. Ci sono commissari che dilagano anche per mezzora, sputando conoscenze sottili, umiliando i candidati, altri che si sbrigano con una domanda, commissioni che finiscono alle tredici, altre che ancora lavorano masochisticamente anche tra le due e le tre di pomeriggio, quando il cado suggerirebbe di far presto e chiudere l’esibizione.
È il momento del voto finale, che rappresenta la sommatoria del credito scolastico conseguito nel triennio, delle prove scritte e del colloquio. In alcuni casi di valida preparazione la commissione ha a disposizione un bonus di cinque punti da aggiungere a quanto il candidato ha conquistato con le sue forze. Anche la tipologia del punteggio è cambiata negli anni: prima c’erano i voti in decimali e, addirittura, in tempi più lontani, c’era il rinvio alla sessione autunnale per le insufficienze, poi si è passati al voto in sessantesimi (teoricamente dieci punti a disposizione di ogni commissario), sui quali il presidente poteva “mettere il carico” del suo peso, adesso il massimo di una volta, sessanta, è diventato il minimo, mentre il massimo è cento: da qualche anno è prevista anche la lode, cioè l’eccellenza, o, giubilo, la menzione! Quando i risultati sono appesi all’albo dell’istituto, si verifica l’ultimo atto, il confronto del proprio voto con quello degli altri e tutte le possibili spiegazioni per giustificare eventuali insuccessi o differenze con i voti dei compagni, o con quelli attribuiti dalle altre commissioni. Qua il campo è articolato e degno di un trattato di sociologia: la prima motivazione nei confronti di eventuali discrepanze a vantaggio del valore effettivo del candidato è: “Chissà quali calcagnate in culo avrà ricevuto!!!”
La valenza della raccomandazione è manifestazione della potenza della famiglia, del suo livello d’importanza sociale, della capacità di potere intervenire e influire, attraverso canali sotterranei, a modificare i risultati conseguiti dal candidato con le sole sue forze. Va osservato che, contrariamente a quel che si crede, gran parte del corpo insegnante è insensibile o parzialmente sensibile alle pressioni sottobanco: spesso ci si scambia la lista dei raccomandati, o si scommette su chi riuscirà a raccoglierne di più. Rari i casi di vera e propria corruzione. Il commissario che ha fama di non essere disposto ad accettare questa pratica è un “diverso”, un “cornuto”, uno che non vuole adattarsi alle regole della società, “un comunista”. L’altra giustificazione della negatività del candidato è che il professore “se l’è messo sul naso”, ce l’aveva con lui, che gli ha fatto domande trabocchetto per farlo “cadere”; c’è anche chi cerca di spiegare i punti di differenza in meno rispetto a quanto ci si aspettava con malesseri, blocchi psicologici, problemi interiori, difficoltà di adattarsi al modo di pensare del commissario, membri interni che non hanno fatto il loro dovere, il quale, secondo i genitori, consisterebbe nel dare il massimo a tutti, ma in particolare al proprio figlio. In ogni caso la colpa non è mai del figlio o della sua scarsa preparazione. In questi ultimi tempi la sorveglianza dei genitori sull’operato della commissione si è intensificata e spesso fioccano ricorsi, il più stupido dei quali, spesso per le scuole private, è dato dalla discrepanza tra il giudizio di ammissione della scuola (gonfiato al massimo) e il giudizio della commissione, che ha rimesso con i piedi a terra il somarello convinto che con i soldi si può comprare tutto.
La commissione conclude i suoi lavori stilando i giudizi di maturità, che non servono a niente, quasi sempre preconfezionati (esiste il giudizio di “sessanta”, quello di “settanta”, quello di “cento”, quello di chi non ha superato l’esame, ampiamente motivato, in modo da mettersi al sicuro in casi di ricorsi). Ultimata la fatica si fa il plico, cioè il pacco in cui si mettono dentro tutti gli atti dell’esame, con suggello finale in ceralacca rossa, riscaldata col pentolino, su cui si appone il timbro a secco, il bollo dell’istituto. I ragazzi, ormai “maturi” e fuori dall’incubo, potranno andare al mare, in discoteca, o festeggiare con l’ultima cena o pizza la fine della pena e dello stress, in attesa di frequentare i corsi di preparazione privati per sostenere i test di ammissione alle facoltà nelle quali pensano di iscriversi. Ma questa è un’altra storia.
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