Il primo può identificarsi nel titolo di un libro di Milan Kundera, “La vita è altrove”: comprende quelli che pensano che la vita degli altri sia sempre migliore della propria, che sognano di vivere su isole incantate, che aspettano il vero amore, che immaginano di ballare un valzer di Strauss in un salone aristocratico, che pensano all’orgasmo “vero” come a qualcosa d’irraggiungibile, che si proiettano nell’eroe, sia esso 007 o Superman o Tex Willer, nel cantante, nell’attore, nel santo. Il discorso vale per ambo i sessi, con relativa esemplificazione di eroine, di Cleopatra, Sissi, Frida Kalo, Beatrice, Marylin Monroe ecc. Per costoro la vita è una proiezione lontana di ciò che si sarebbe voluto essere e non si è stati, un grumo d’insoddisfazioni imbottigliate in un’irrimediabile accettazione rassegnata dell’esistente.
L’altro tipo sta interamente dentro il titolo di una canzone di Claudio Baglioni: “La vita è adesso”: si tratta di cogliere senza esitazioni l’irrepetibilità del momento, di sentirsi vivi, attivi, protagonisti. Il rapporto in tal caso non diventa vissuto, ma vivente, si avverte il fluire senza ritorno del tempo e si cerca di approfittare di qualsiasi momento che crei nuove esperienze, nuove conoscenze nuove condizioni dove il presente si rigenera con nuove energie, nuovi volti, nuove immagini. Aveva già detto tutto Lorenzo il Magnifico nel suo “Chi vuol esser lieto sia, di doman non v’è certezza”. È l’invito a stare dentro il proprio tempo, il proprio ambiente, la propria persona, ad accettarsi e a rifugiarsi dentro il “carpe diem” di Orazio o il “divieni ciò che sei” di Nietzsche. La coscienza di non poter tornare indietro, di essere nati in un tempo ben diverso da quelli passati, in cui è necessario sviluppare e aprire al mondo la nostra identità. La difficoltà del tragitto e le imprese eroiche non servono a scoraggiare, ma a invitare questi inguaribili ottimisti a recitare la propria parte senza esitazioni.
Ci sarebbe una terza tipologia, quella degli indifferenti, dei lavativi, di coloro che lasciano passare sulla propria pelle tutto, senza preoccuparsi di scottarsi o di rimetterci una parte di sé, quelli detestarti e condannati sia da Gramsci che da Dante, che li chiama “ignavi” e li inchioda alla nullità con un lapidario “non ti curar di lor, ma guarda e passa”. Perciò non ne parlo.
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