Il mondo della magistratura continua ad essere investita da cicloni. Il primo fu sicuramente, scaturito dalle inchieste di Pino Maniaci e Telejato, l’emersione del sistema Saguto. C’era di che riflettere e agire ma, tranne ben pochi, è calata una cappa di silenzi e imbarazzi su quanto emerso. Silvana Saguto oggi è fuori dalla magistratura. Esattamente come Luca Palamara, il ciclone finora maggiore che ha portato all’emersione di un sistema (che va oltre lo stesso Palamara) che per anni ha cercato di isolare, delegittimare e combattere magistrati indipendenti e coraggiosi, impegnati in prima linea contro i «poteri marci» di questo Paese. Nonostante tutto questo sia ben chiaro ed evidente quegli stessi magistrati continuano ad essere attaccati, insultati e oggetto di campagne di delegittimazione da parte di chi sbandiera a suo uso, consumo e strumentalizzazione quello che è stato definito «sistema Palamara». Ultimo in ordine di tempo quanto sta accadendo intorno al dossier sulla presunta «loggia Ungheria» e le accuse di Amara, ex consulente ENI già sotto inchiesta e processi per altre vicende. Tra cui quella del dossier in cui si accusava i giudici che stavano indagando sulla società di un fantomatico complotto. In questa vicenda odierna vari sono i nomi citati ma il primo a finire sulla ribalta mediatica, con addirittura la notizia (totalmente falsa) che Amara l’avrebbe indicato come appartenente alla presunta loggia, quello del magistrato antimafia Sebastiano Ardita.
La storia di Ardita, le inchieste e le denunce coraggiose di questi anni, l’impegno contro mafie e massomafie parlano da sole. Ma nel Paese in cui, come stiamo vedendo ancora oggi sul «sistema Saguto» e l’assoluzione di Pino Maniaci, la memoria è strumentalmente labile e la credibilità di troppi attori megafoni più piccola del pelo di un criceto, sul palcoscenico mediatico (e non solo) si continua a non guardare o guardare altrove. C’è molto da riflettere e agire sul mondo della magistratura, sullo stato generale di questo Paese, su come i «poteri marci» e le reti di contatto tra faccendieri, mafiosi, economia, politica, settori delle istituzioni, massonerie e altre squallide consorterie vanno combattuti, fatti emergere una volta per tutte e cambiare questo Paese. Nelle scorse settimane Nino Di Matteo ha rilasciato una articolata e approfondita intervista al giornale online WordNews pubblicata in tre capitoli. Al direttore Paolo De Chiara e alla collaboratrice Alessandra Ruffini ha consegnato profonde riflessioni e un’analisi coraggiosa. “Ti farei fare la fine del tonno” disse la bestia (Totò Riina) dal carcere di Opera. Il sanguinario boss, protagonista (insieme agli apparati dello Stato) della vergognosa Trattativa Stato-mafia, è morto insieme ai suoi segreti. Ma non è l’unico.
«Credo che l’opinione pubblica abbia non soltanto il diritto ma, oserei dire, il dovere di essere informata sui processi che sono stati celebrati e che non vengono raccontati dalla grande stampa. L’opinione pubblica deve essere informata e chi ha un ruolo all’interno dello Stato, della magistratura e delle forze di polizia, ha il dovere di non fermarsi». Nino Di Matteo
Trattative, decisioni strane che “puzzano di bruciato”, mancate nomine, attacchi ai magistrati che fanno il proprio dovere, scelte risibili e pericolose, entità misteriose che continuano a decidere il nostro futuro. Ma è talmente forte quel “potere” (massonico, economico, finanziario, criminale) che non può essere scalfito? Il passato ci riporta alle stragi e alle strategie (della tensione) stragiste terroristiche e mafiose. I “misteri” continuano a caratterizzare la nostra storia. Ma cosa è cambiato dalle bombe degli anni Novanta? Non è servito a nulla il sangue di innocenti versato per le strade?
«La politica dovrebbe anche avere un occhio particolarmente attento a verificare che determinate scelte non finiscano, anche inconsapevolmente, per favorire Cosa nostra o le mafie in generale e realizzarne gli obiettivi. Da cittadino auspico che, prima o poi, ci si renda conto che la lotta al sistema criminale-mafioso, inteso nell’accezione più ampia, dovrebbe sempre rappresentare uno dei punti nodali dell’azione di un governo, di qualsiasi colore. Anche quando non spara la mafia condiziona le libertà e i diritti fondamentali dei cittadini». Sulla Trattativa Stato-mafia: «Mentre c’era chi moriva, chi rischiava di morire, c’era chi faceva parte delle Istituzioni e trattava con Cosa nostra. I fatti sono ormai dimostrati».
«Mi è stato detto dal ministro, nell’invitarmi ad accettare un altro incarico, che non ci sarebbero stati dinieghi o mancati gradimenti che potevano bloccare la nomina. Dovrebbe essere l’ex ministro Bonafede ad avere la sensibilità istituzionale di spiegare chi avesse opposto dinieghi o dichiarato i mancati gradimenti. Non credo che lo abbia mai fatto».
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