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Dai, Piero, suoniamo ancora…

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La notizia della morte di Piero Impastato mi ha lasciato allibito. È vero, ci si dovrebbe abituare all’ idea che, come dice Pavese, “la morte ci accompagna dal mattino alla sera – insonne, – cieca come un vecchio rimorso – o un vizio assurdo”. E invece pensiamo di essere immortali sino a quando non arriva la notizia che ti butta in faccia e senza pietà una fine che non risparmia nessuno. Con Piero eravamo cugini ed abbiamo passato l’infanzia e l’adolescenza tra le trazzere e gli scogli del Mulinazzo, divertendoci, la sera, con le nostre chitarre e il giorno ad acchiappare grilli, a catturare lucertole, a cercare patelle e ricci . Nei tre mesi estivi  tutti i figli di “a zza Rusulia”, detta “a Mastricchia, sorella di mio nonno, si trasferivano da Palermo, nella casa di campagna, contigua alla nostra,  ed era un tempo di  vita, di festosa compagnia, di amori, di rumori, come quello della mostruosa moto Guzzi di zio Gaspare, che rompeva il silenzio della campagna. Dopo il liceo si era iscritto in Filosofia, come me e Peppino, ma a un certo punto aveva interrotto gli studi  e aveva sposato Eleonora , che morì qualche tempo dopo, lasciandolo nella disperazione. Riuscì a riemergere, a sposarsi di nuovo, con Giuseppina, a creare una famiglia,  a portarla avanti lavorando come fattorino a Città del Mare, ma senza mai trascurare il suo amore per la chitarra: con il tempo è riuscito a leggere e a suonare spartiti e componimenti di notevole difficoltà tecnica. Mi riproponevo, in questi giorni, di andare a casa sua con il mio mandolino, per suonare ancora un po’ insieme, ma il mio è rimasto un desiderio inevaso. E’ morto, per una curiosa coincidenza, nello stesso giorno di Fabrizio De Andrè, del quale conosceva e sapeva suonare qualsiasi canzone. Sempre presente a tutte le iniziative per ricordare Peppino, con il quale aveva anche un filo di parentela, è stato uno splendido compagno che voglio ricordare con la foto di copertina, inedita,che lo ritrae durante una delle manifestazioni per Peppino e con questo racconto di un momento di vita comune al mare della Scalidda, con Peppino e con il padre di Piero, Gaspare, pubblicato nel mio ultimo libro “Cento passi avanti e qualche passo indietro”:

(Peppino e Piero a mare. Mentre Peppino armeggia con una bacchetta, lo sguardo di Piero sembra perdersi verso l’infinito.)

U trarimentu”

Sul mare ondeggia una barca: mio zio Gasparino, basso, grasso, col cappello di paglia in testa, sonnecchia a prua. Mio cugino Piero indossa maschera e pinne e si tuffa. Con Peppino, anche lui cugino di Piero, per una di quelle complesse combinazioni matrimoniali e parentali di paese, armeggiamo intorno a un attrezzo composto da un grande cerchio di ferro, attorno al quale è fissata una rete; alla parte bassa dell’imbuto formato dalla rete è legata una pietra: il marchingegno si chiama “’u trarimentu”, perché si pigliano i pesci a tradimento.

Piero riemerge con alcuni ricci di mare, li tira dentro la barca e si rituffa. Li schiacciamo e li mettiamo dentro “’u trarimentu”, poi leghiamo una corda al centro di un’altra corda fissata al cerchio come un diametro e caliamo a mare l’attrezzo. Dentro il coppo cominciano a entrare dei pesci.

Peppino guarda il fondo del mare attraverso uno specchio ed è come se facesse una radiocronaca: «Stannu trasennu cincu viole. Talè, stannu vinennu l’autri pisci. Minchia, quantu ci nn’è!!! C’è ’na viola bella grossa. Talè, c’è ’u zzuraddu, è bellissimo, coloratissimo: Tira, Tira forte» .

Do uno strappo all’attrezzo e lo tiro in barca. Dentro saltellano una ventina di pesciolini. Riproviamo. Piero risale a bordo.

Gasparino guarda verso la montagna: «’U suli è arrivatu a balata di menziornu  La vedi? È quella pietra bianca in mezzo alla montagna. Quando il sole la illumina è mezzogiorno preciso. Andiamo a mangiare, ragazzi?».

Piero accende il motore, la barca parte e si ferma in una caletta lì vicino, alla Scalidda. Abbiamo tutti imparato a nuotare qua. C’è il primo scoglio, “’u primu ruccuneddu”, dove si poggia ancora il piede, dove possono arrivare anche i bambini, “’u secunnu ruccuneddu”, dove bisogna imparare a stare a galla, cominciare a saper nuotare, si poggia in punta di piedi, e “’u terzu ruccuneddu”, dove si arriva solo se si è nuotatori provetti.

Peppino e Piero cercano qualche pezzo di legno attorno, io e zio Gasparino puliamo il pesce, accendiamo il fuoco, Gasparino tira fuori da un angolo della barca una padella con una bottiglia d’olio, sale e persino la farina. Friggiamo il pesce, che si ritrae, appena in padella, ce lo sbafiamo, bevendoci su del vino. Accendo una sigaretta e ne passo una a Peppino. Ci sdraiamo sulla battigia, mentre il mare ci lambisce i piedi.

«Sarebbe bello vivere sempre così!» dice Peppino».

Lo guardo ironicamente: «Vuoi fare il marinaio?».

(Nella foto: Piero, di spalle, davanti alla casa di Peppino)

Piero, con il piede fa schizzare un po’ d’acqua su Peppino, che si alza e lo insegue. Insieme si buttano a mare nuotando, ritornano, mi buttano acqua addosso, li rincorro, ci tuffiamo giocando a metterci la testa sott’acqua. Gasparino ci guarda sorridendo. Quasi automaticamente, dietro qualche atavico richiamo, salgo la piccola scala ricavata nell’arenaria gialla, e quel che rimane di essa. Piero e Peppino mi notano e mi seguono. Mancano alcuni gradini e non è facile. Infine arriviamo lassù. Sotto i nostri occhi la brulla distesa dell’aeroporto: potrei, potremmo ricostruire pietra su pietra quello che c’era prima, il Molinazzo, fissato, in maniera indelebile nel ricordo: la casa dei Cintorino, cugini di Piero, quella di “’a Mastricchia”, nonna di Piero e sorella di mio nonno “’u zu Cola Matisi”, la mia casa, dove, con mio cugino Nicola dicevamo che c’era il mito, i pozzi, le senie, i castelletti da dove passava l’acqua per irrigare, e poi la casa dei Valenti, tornati dall’America dopo quarant’anni, a morire qua, quella dei Curcurù, belle ragazze che venivano in estate, quella di “’u zu Larenzu ’u Spirdatu”, quella di “’u zu Vitu ’u Checcu”, di “’u zu Faru Agghiu”, di “’u zu Peppi Muccuneddu”, di “’u Turcu”, di “’u zu Vitu Badalamenti”, di “’u Persu”, dei suoceri di “Asparinu Cucinella”.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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