Da nove anni porto avanti, assieme ai pochi che mi sostengono, la battaglia sulla revisione della legge sulle misure di prevenzione, particolarmente su quelle che dispongono il sequestro dei beni dei presunti mafiosi. Sulla mia strada mi sono trovato come alleati solo l’emittente Telejato, dove, sino al momento in cui sono stato particolarmente attivo, ho scritto buona parte dei miei articoli sul tema, il suo responsabile Pino Maniaci, alcuni “preposti”, cioè sottoposti alle misure di prevenzione e ai quali con l’evolvere delle loro vicende processuali è stato riconsegnato tutto, cioè niente, Radio Radicale e Sergio D’Elia, responsabile del Partito, Francesco Iacopino, un avvocato che si è occupato delle risultanze del VII open day dell’Unione Camere Penali a Rimini (giugno 2023), nel corso del quale è stato dato il premio, intitolato a Massimo Bordin, mitico conduttore di Radio Radicale e a un giornalista, Alessandro Barbano, autore del libro “L’inganno antimafia, usi e soprusi dei professionisti del bene”.

Per la verità il libro offre poco di nuovo a quanto scritto nel mio “In nome dell’antimafia” – Misure di prevenzione e gestione dei beni sequestrati, IOD editore, – boicottato da tutta la filiera di distribuzione e di promozione dei libri e ignorato persino da tutte le persone di cui parlo, nel bene e nel male. Dopo il clamore suscitato dal caso Saguto e a seguito delle indubitabili carenze emerse nell’applicazione della legge sui sequestri di prevenzione, tutto è rientrato a poco a poco: sono stati riconsegnati ai legittimi proprietari alcuni beni frettolosamente sequestrati, sono state snellite alcune procedure relativi a ritardi nell’analisi delle vicende processuali e alle consegne e agli adempimenti degli amministratori giudiziari, sono stati puniti con qualche anno di carcere, ridotto in appello i protagonisti delle squallide vicende del cerchio magico del giudice Silvana Saguto e tutto è andato avanti senza un minimo spazio di revisione e di aggiornamento di alcune norme che sono presenti solo in Italia, e che fanno a pugni tra le linee base di uno stato di diritto. Si tratta di un blocco di norme che spesso scavalcano le direttive costituzionali, ma che dovrebbero venir meno una volta finita l’emergenza e che invece sono diventate “normali” componenti nell’amministrazione della giustizia. In una recente Sentenza del CGA (6 giugno 2023) è scritto che “Le norme che disciplinano le comunicazioni antimafia non sono norme speciali rispetto alle norme del Codice penale.” Dovrebbe essere, ma non è.

Ogni volta che affronto l’argomento spunta inevitabilmente il talebano dell’antimafia che, rifiutando qualsiasi argomento, mi accusa di essere tra coloro che vogliono boicottare la legge Rognoni-La Torre, e che quindi fanno il gioco dei mafiosi. Quella di usare la figura di Pio La Torre come paravento della propria intransigenza è un’autentica carognata. Quando raggiungo il limite della sopportazione nei confronti di una persona che dovrebbe essere un mio compagno di lotta e invece si propone come nemico, non posso fare a meno di dirgli: “Sei stupido, ignorante e fanatico”, anche a costo di beccarmi una denuncia. L’ignoranza nasce dal non sapersi rendere conto che le misure non sono o non dovrebbero essere una condanna, ma un momento di “prevenzione”. Il talebano non si preoccupa della mancata considerazione dei danni arrecati alla dignità della persona e della famiglia che finisce sotto la mannaia, specie se si tratta di persone non mafiose; il fanatismo è tipico di coloro per i quali tutto l’operato della magistratura e degli investigatori nei confronti di tutto ciò che sa di mafia, ma anche che si presume essere mafia, è sacrosanto e indiscutibile. In realtà non è vero, come sostenuto recentemente da qualche ministronzo, che “abbiamo una legge che tutta l’Europa ci invidia”. Tutta l’Europa si stupisce e sbarra incredula gli occhi davanti a una legge che dà pari poteri a chi, sulla base di un sospetto o di indagini approssimative, magari confortate da qualche deposizione di pentiti a comando, togliere a un privato cittadino i beni con la stessa modalità di quanto non faccia una sentenza penale, m senza processo, salvo poi ritornare tutto in caso di insufficienti motivazioni. Addirittura, il giudice di prevenzione può emettere la sua sentenza di sequestro e di successiva confisca, anche se l’imputato è stato penalmente assolto e prosciolto da ogni accusa.

Come al solito, per i più ottusi, va chiarito che qualsiasi confisca a un mafioso doc è sacrosanta, indiscutibile, che non bisogna avere alcuna pietà per assassini, mascalzoni, corrotti ma che la prevenzione non è una pena e che non può essere gestita con norme penali, ma con pratiche volte a riportare l’azienda nell’alveo della legalità, non su quello del fallimento. Sono da sequestrare e confiscare anche tutte quelle ricchezze delle quali non è stata dimostrata la provenienza, ma non quelle realizzate con pratiche corrette. Mi fermo perché mi rendo conto dell’inutilità di questo discorso nei confronti di chi non è capace di alcuna riflessione sul problema e scambia per mafioso colui che è costretto a piegarsi al ricatto per tutelare, prima che la sua azienda, la sua famiglia. Anche qua la discussione è inutile, perché il talebano pretende che l’estorto vada subito a denunciare l’estortore, altrimenti e suo complice. Non c’è bisogno di dire che questa gente ignora cosa vuol dire essere sottoposti a ricatti, minacce e spesso alla distruzione della propria azienda. Se lo provassero sulla loro pelle, forse qualcosa potrebbe essere riconsiderata. Mi si potrebbe dire che anch’io non so, ma almeno ho ascoltato tanta gente che si è vista colpita e affondata prima dagli estorsori e poi dallo stato.

Considerata l’inutilità di un discorso non tra sordi, ma in cui una delle due parti è sorda, mi fermo solo per reiterare le proposte da me avanzate tramite Telejato, pubblicate nel mio libro citato all’inizio:

– consentire l’immediato pagamento dei creditori dell’azienda sin dal momento del sequestro, per evitare di causare il fallimento di aziende fornitrici legate all’indotto su cui l’azienda confiscata opera;

– legare il momento del sequestro a quello dell’iter giudiziario penale, e non procedere al sequestro di un bene se non è dimostrata, almeno sino alla chiusura della fase istruttoria, la sua provenienza mafiosa;

– consentire un solo incarico agli amministratori giudiziari e pertanto, servirsi a rotazione di un albo-elenco degli amministratori giudiziari, selezionati con punteggio, evitando l’arbitrio della “persona di fiducia” decisa dal magistrato:

– fissare un tariffario delle prestazioni degli amministratori giudiziari, dei collaboratori, dei periti, con il rimborso delle parcelle a carico dello Stato, non delle aziende sotto sequestro. Tale tariffa potrà subire positivi aumenti in rapporto ad eventuale aumentata produttività dell’azienda;

– svincolare le competenze di emissione dei decreti di sequestro e quelle di nomina degli amministratori dalle mani di un solo magistrato e allargarne la facoltà a tutti i magistrati del pool antimafia;

– fissare con precise disposizioni il ruolo dell’amministratore giudiziario obbligandolo a presentare annualmente i bilanci, revocandogli l’incarico nel caso di gestione passiva non motivata adeguatamente e obbligandolo a risarcire i danni nel caso di amministrazione fraudolenta o di palese incapacità gestionale;

– restituire i beni sequestrati, nel caso di proscioglimento delle accuse, nella loro interezza e nel loro valore iniziale. Lo Stato si farà carico di eventuali risarcimenti;

– non consentire la reiterazione del provvedimento di confisca, sotto altre possibili imputazioni, salvo casi di comprovate gravi situazioni di illecità;

– immediata esecuzione del provvedimento giudiziario di sequestro o di dissequestro coordinando l’aspetto penale con quello di prevenzione (punto 2). Sono ingiustificabili gli scandalosi rinvii di anni, poiché l’azienda sequestrata perde il suo giro di affari e finisce in liquidazione;

– possibilità di revoca, su eventuale richiesta motivata, dell’incarico di amministratore giudiziario da parte di un magistrato inquirente diverso da quello che ne ha fatto la nomina;

– utilizzazione del fondo già esistente (FUG), a sostegno delle aziende la cui amministrazione passiva non sia imputabile a cattiva gestione dell’amministratore;

– non consentire la vendita a privati dei beni di titolarità dell’azienda sequestrata;

– favorire, nei bandi per l’assegnazione, l’imprenditoria giovanile, le strutture cooperativistiche, i progetti che si occupino di agricoltura e di turismo, con facili norme per accedere a forme di credito agevolato per l’acquisto di quanto serve a impiantare l’azienda;

– consentire il ritorno alla gestione del bene a coloro che, dopo la fase processuale, abbiano dimostrato volontà e intenzione di continuare il tragitto di lavoro nell’ambito della legalità;

– associare come collaboratore all’amministrazione giudiziaria il responsabile del funzionamento dell’azienda, cioè il suo proprietario, per assicurare continuità e gestione positiva;

– la richiesta più importante è quella di distribuire l’immenso potere di cui dispone il pool di magistrati delle misure di prevenzione, utilizzando le competenze di altri magistrati, al fine di non strozzare ulteriormente, sino ad arrivare al collasso, la debole economia siciliana, nella quale, il settore dei beni sequestrati, salvo pochissimi casi, ha accumulato fallimenti e disperazione da parte di lavoratori trovatisi sul lastrico. Sarebbe necessario organizzare corsi di formazione fatti da gente qualificata, che non siano occasione, come al solito, per distribuire il finanziamento del corso ai soliti “amici” relatori ultra-referenziati, per poi rilasciare a tutti, dopo le passarelle, l’attestato, senza accertare l’acquisizione delle competenze;

Mi auguro che dopo queste serene proposte nate da un approccio diretto, ormai decennale, con il problema, pur senza il possesso di competenze legali e commerciali, (per le quali rimando all’ottimo libro di Elio Collovà: “Mafia egemone”) non spunti il solito fanatico a dire che “siamo in presenza dell’ennesimo attacco della mafia alla legge La Torre”: l’alveo della costituzionalità è un punto di riferimento è un momento che prevede il momento della prevenzione come atto propedeutico all’azione penale, non come suo sostitutivo. Purtroppo, “il caso Saguto” è già stato archiviato come quello della mela marcia nel paniere e non come una malattia di tutte le mele del paniere, alla quale non è difficile trovare un rimedio curativo, evidenziando il rischio che il potere politico scavalchi quello giudiziario. La riforma sarebbe doverosa, ma non ci sono prospettive all’orizzonte: allo stato è comodo poter mettere le mani sui beni di qualsiasi cittadino individuato come sospetto mafioso o corrotto, magari per ridistribuire questo bene a chi ha progettato di occuparsene, ma nella maggioranza dei casi non è capace di farlo.

Pubblicato su antimafiaduemila.com il 18 settembre 2023

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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