Il “cupio dissolvi” ha sempre caratterizzato la tradizionale litigiosità della politica italiana di sinistra. Se il Partito Socialista non si fosse diviso in tre non avremmo avuto il fascismo, senza scordare le origini politiche di Mussolini né quelle del nazional-socialismo di Hitler. Attenzione, mi si risparmi l’imbecille battuta che i sistemi totalitari sono insiti nell’ideologia della sinistra: file infinite di “compagni” morti per la libertà testimoniano il contrario. E questa peculiarità del dissolversi in rivoli, ognuno dei quali si scaglia nei confronti dell’altro con violenza, acredine e odio, peggio che con il peggior nemico politico, è determinata con ogni probabilità, proprio dal fatto che si crede in maniera convinta nelle idee di cui si è portatori: si pretende di essere depositari della verità, del purismo dell’interpretazione, della correttezza dell’analisi e pertanto, ove non si riscontri condivisione nel gruppo, se ne esce fuori e si dà vita a un altro gruppo. In tal modo la forza del gruppo di provenienza si indebolisce, ma questo non preoccupa i fautori del nuovo gruppo, per i quali il gruppo di prima diventa nemico, tanto quanto tutti gli altri, se non peggio. Ho letto di stupidotti che vanno dall’area di “estrema sinistra” a quella di “grillini critici”, affermare “meglio Forza Italia che Renzi” oppure “sono contento che abbia vinto Trump e non quella corrotta della Clinton”, oppure ancora, da altre zone, “meglio Berluscazzo che Renzi o che Grillo”. Ahime!!!
Le motivazioni delle scissioni sono spesso personali, ma sono camuffate da pretesi ideologismi: si maturano le idee di scissione attraverso riflessioni proprie che non si allineano con quelle dei piccoli o grandi leader, e questo sembra essere, a prima vista, il risultato di una certa educazione alla democrazia e all’esercizio del pensiero, sconosciuta in vasti settori di destra. “Il leader non va perché non ha niente a che fare con i valori per cui abbiamo lottato”. E’ l’accusa con la quale il gruppo di Articolo Uno, ovvero di Bersani-D’Alema, ha lasciato il PD di Renzi, senza tuttavia riuscire, almeno sinora, a coagulare intorno a sé il vasto arcipelago dei movimenti di estrema sinistra. Di là si va a reciproche accuse di eresia, di tradimento, di accordi sotterranei, persino di astensionismo elettorale. Anche il tentativo, alle passate elezioni nazionali, fatto da Antonio Ingroia, di coinvolgere o convogliare il dissenso a sinistra del PD, o quello, alle europee di una strana “lista Zipras”, si sono dissolti a causa di complessive incapacità di costruzione di un’alternativa credibile, che fosse soprattutto nuova, cioè espressione del dissenso rapportata ai problemi che emergono giornalmente nella società.
Il trans-ideologismo dietro cui si nascondono i grillini è una maschera inesistente, con la qualei si vuol far credere che non esistono più destra o sinistra, che la vecchia politica è morta o è agonizzante a causa della sua incapacità a sapersi rinnovare e a cancellare i privilegi. Già questa seconda affermazione ha una forte carica di sinistra, ma guai a dirlo ai nuovi politici, che preferiscono prendere paurose sbandate a destra sia nei confronti dei migranti, sia nella scelta delle alleanze europee (vedi Farage), pur dichiarando la mancanza di un’identità ideologica. Perché le categorie politiche di destra e di sinistra sono la chiave di lettura politica della storia, dai tempi dei Gracchi, a quelli di Cesare, a quelli dei Ciompi, a quelli dei tribunali d’inquisizione, a Garibaldi o a Lenin: nel senso di una lotta tra il conservatorismo di chi detiene il potere, e chi sceglie invece la via dell’opposizione e, se ne è capace, della contrapposizione: dietro ci sta la lotta contro le differenze sociali, che è di sinistra, e la coerenza con gli immortali principi della Rivoluzione Francese. Del resto basta richiamare la canzone di Gaber, che molti non sanno ascoltare. Insomma l’eterna lotta tra ricchi e poveri.
Anche la diffusa condanna del “sono tutti uguali” non è corretta, perché non sono tutti uguali, non sono tutti ladri, esistono file infinite di persone corrette e oneste e l’eventuale corruzione o colpevolezza di pochi non può essere omologata come un abito che indossano tutti. Ma quello di confondere il particolare con l’universale è un aspetto e un pregiudizio cui gli italiani non sanno rinunciare. Chi segue questa distorsione mentale ignora o finge di ignorare quanto sangue e quante lotte ci siano state in mezzo, dalla parte di chi ha lottato per costruire un sistema in cui davvero si potesse essere “tutti uguali”. Si replicherà che sono “i politici” tutti “uguali”, ma a questo punto bisogna inserire tutti i politici, anche quelli che dicono “sono tutti uguali”, cioè quelli che approfittando dei varchi aperti nel sistema politico italiano, tipo Berlusconi o Grillo, hanno costruito la loro identità “culturale” e politica e sono finiti in parlamento. Se sono tutti uguali non c’è speranza.
Il renzismo sicuramente è il virus penetrato all’interno del debole organismo politico della sinistra e che ne sta provocando l’autodistruzione. È cominciato con la favola della rottamazione, essenzialmente mirata su D’Alema, Bersani e Prodi : certamente non sono stati rottamati vecchi democristiani come Gentiloni, Bianco, Orlando e i vari amici d’area. Diciamo che è diventata maggioranza all’interno del PD l’ala di provenienza della sinistra democristiana. C’erano già state le avvisaglie allorchè Veltroni aveva rinunciato a la sua carica di sindaco di Roma, regalando la città ad Alemanno, per inseguire il sogno di premierato, dopo avere concordato con Berlusconi lo sbarramento al 6% per fermare soprattutto l’emorragia alla sua sinistra. E siccome il lupo perde il pelo ma non il vizio, l’operazione proprio a Roma, si è ripetuta con Marino, impallinato dallo stesso PD che lo aveva proposto e sostenuto, con il risultato di regalare la città ai dilettanti allo sbaraglio della Raggi.
Adesso, secondo le strategie renziane del falso “mi gioco tutto”, dopo la sconfitta al referendum che nascondeva la proposta di pericolosi risvolti autoritari, l’”homo novus” sta pensando ad elezioni anticipate con una legge che conservi il premio di maggioranza e le liste bloccate, onde potere decidere interamente chi dovrà sedere in parlamento e al senato. Non avrebbe senso impallinare Gentiloni, che è un suo clone, e che, nel bene e nel male sta tirando la carretta, ma la libidine di potere è tale che, pur di andare dietro alla sua ambizione di comando, Renzi non esiterà a far fuori l’intero governo, come già aveva fatto con Letta, negandogli un altro anno di legislatura, con il rischio, già verificatosi con il referendum e con le ultime comunali, di perdere tutto o di dovere mendicare briciole al centro destra risvegliato e ringalluzzito per suo “merito”. Per non parlare dell’insidia pentastellata, che rischia invece di prendere il tutto perduto da Renzi. La caduta verticale di Renzi e della sua banda ha poco di differente da quella di Berlusconi: il PD si ridurrà a un partito del 15 % ma continuerà a sostenere le sue posizioni liberticide, con il falso alibi della governabilità, e ad andar dietro a tutto ciò che allontana la gente dalla politica partecipata e lascia carta bianca alle capacità di conduzione del leader.
Quali speranze? Al momento ben poche e tutto sembra orientato verso i cinque stelle, malgrado molti di essi si siano dimostrati, per dirla con un vocabolo siciliano intraducibile “sfasciaallitti”. Manca un leader, mancano i suoi collaboratori, mancano le idee di sinistra, mancano individui come Corbin o come Sanders, (per carità, nulla di rivoluzionario!) capaci di “resuscitare” un’identità offuscata, alla quale invece in Italia è stato fatto il funerale. La partita si gioca tutta nella capacità degli ultimi fuoriusciti dal PDi, di riuscire ad unificare tutto il dissenso sbriciolato in mille isole indipendenti, ma nessuno sembra possedere questa dote di “tessitore”. Dietro è necessario un programma con tutto quello che vuol dire essere di sinistra, cioè lottare per difendere i più deboli nella scala sociale ed economica, generare lavoro, semplificare la burocrazia, combattere il clientelismo, il parassitismo, la corruzione, le mafie, aprire, liberare quotidianamente spazi di democrazia partecipata e da essa prendere le idee e recepire i problemi da affrontare. Non ci vuole molto: basta stare lontani dalle banche e non preoccuparsi se falliscono, non sentirsi espressione del mitizzato ceto medio ipocrita, perbenista e qualunquista, non lasciarsi coinvolgere dal razzismo becero, ma trovare soluzioni che non siano solo di assistenzialismo, non lasciarsi tentare dall’integralismo medievale velato di cristianesimo, non concedere nulla ai furbetti che devastano l’ambiente, ripristinare i poteri di uno stato oggi in vendita sulla gestione dei rifiuti, sulla conservazione e distribuzione delle acque, sull’istruzione, sull’edilizia pubblica, sulla sanità, sulla sicurezza, sulla gestione del demanio. Insomma basta restituire alla gente la soluzione dei bisogni elementari in cui quotidianamente si dibatte a causa di una crisi che non accenna a risolversi. Se il lavoro di cucitura basato su queste semplici linee d’azione tipicamente “di sinistra” avrà buon esito allora sarà Renzi ad essere rottamato e saranno i rottami di cui si è liberato a rifondare una condizione in cui tutti siano partecipi e protagonisti. Altrimenti non resta che aspettare il ducetto e rassegnarsi al ruolo di pecore in cerca di un pastore. Insomma siamo davanti a un perdente felice di perdere perché nelle sue analisi poco realistiche e nella cerchia dei suoi consiglieri non è prevista la sconfitta.
Purtroppo, realisticamente, all’orizzonte non si intravedono prospettive se non legate alla frase che nel film “I cento passi” il pittore Stefano Venuti dice a Peppino Impastato: “Noi saremo sempre sconfitti perché ci piace essere divisi, ci piace fare ognuno per conto nostro”.
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