Uomini di Stato sarebbero entrati la mattina del 15 gennaio 1993 in via Bernini prima ancora dei mafiosi. E cosa avrebbero trovato? “Furono trovate armi, munizioni e un papello con scritti nomi da fare accapponare la pelle”. L’edizione odierna del Fatto Quotidiano riporta alcuni stralci del “Protocollo Fantasma”, l’anonimo di dodici pagine spedito il 18 settembre del 2012 a casa del pm Nino Di Matteo. A detta del misterioso estensore una squadra di Carabinieri avrebbe recuperato l’archivio di Riina contenente i nomi dei colletti bianchi in contatto con Cosa Nostra. Quegli esponenti dell’Arma, provenienti da ambienti ben precisi indicati dall’anonimo, avrebbero quindi trafugato documenti scottanti da una cassaforte per conservarli poi per un certo periodo “in una caserma del centro di Palermo”.
Tra i nomi contenuti nella lista di Riina potrebbero esserci quelli che farebbero parte della black list di coloro che trattarono con Cosa Nostra. L’ipotesi investigativa della Procura di Palermo ruoterebbe attorno ai segnali obliqui lanciati dal “Protocollo Fantasma”. Lo stemma della Repubblica sarebbe ben in vista su quei 12 fogli inviati da un personaggio indubbiamente ben inserito in quegli ambienti istituzionali dalla doppia faccia. Per questo mister “X” le motivazioni legate alla scelta di non perquisire il covo di Riina rientrerebbero all’interno di una logica criminale. “Per tale episodio – si leggerebbe nell’anonimo – Mori e De Caprio sono processati per favoreggiamento non per la mancata perquisizione del covo di Riina dopo il suo arresto, come i più ritengono, ma per aver omesso di informare la Procura di Palermo che il servizio di sorveglianza alla casa era stato sospeso. E qui casca l’asino. La perquisizione fu fatta, furono trovate armi, munizioni, un papello con scritti nomi da far accapponare la pelle”. Subito dopo vi sarebbe l’elenco delle persone al soldo della mafia e tra queste vi sarebbero quei personaggi a conoscenza del patto tra Stato e mafia, alcuni dei quali sarebbero già stati interrogati negli ultimi mesi. “Immagini, Nino, che bomba sarebbe scoppiata – scriverebbe il misterioso estensore, che si sarebbe rivolto al pm Di Matteo dandogli alternativamente del tu e del lei – il covo di via Bernini è stato subito clinicamente ripulito e ridipinto allo scopo di non lasciare traccia alcuna del passaggio di coloro che avevano fatto la perquisizione”. In un clima surriscaldato dalle recenti rivelazioni di progetti omicidiari nei confronti del pm Nino Di Matteo queste informazioni, sulle quali gli inquirenti stanno cercando i riscontri, si collegano immancabilmente con i misteri sul covo di Riina già consacrati nelle aule di giustizia. A partire dalle prime frenetiche notizie dell’arresto del capo di Cosa Nostra rilanciate dall’Ansa. In quelle stesse ore una “gola profonda” aveva fatto uscire la notizia della collaborazione di Balduccio Di Maggio. Alle 17:10 del 15 gennaio ’93 veniva battuto un dispaccio alquanto esplicito. “E’ un siciliano trentenne di cui soltanto si conosce il nome di battesimo: Baldassarre, ad aver messo gli inquirenti sulle tracce di Totò Riina”. La versione “ufficiale” prendeva quindi corpo. Solo pochi minuti prima la stessa agenzia aveva diramato un comunicato altrettanto ambiguo: “I carabinieri hanno individuato il presumibile ‘covo’ dell’ex latitante a qualche chilometro di distanza dal luogo dove è stato arrestato. L’appartamento è stato perquisito, ma non sono state fornite informazioni né sulla sua ubicazione né su quello che è stato trovato”. Il giorno dopo l’arresto del boss era arrivata la “soffiata” sul luogo esatto del covo di Riina direttamente dal capo ufficio stampa della Regione Militare dell’Arma dei carabinieri, Magg. Ripollino. A distanza di anni erano stati gli stessi giornalisti durante un’udienza del processo per la mancata perquisizione a confermare questo dato. In aula il magg. Ripollino aveva tergiversato, non ricordava bene, per poi aggiungere di ricordare solamente che sarebbe stato il gen. Domenico Cagnazzo ad impartirgli l’ordine di avvisare i giornalisti: “io ero certo che il gen. Cagnazzo ne avesse ricevuto disposizione dal Comandante della Regione”, aveva specificato. Successivamente Cagnazzo aveva negato con forza quanto riferito da Ripollino adducendo al fatto che “quel povero ragazzo si sarà confuso”. Su quell’archivio che Riina avrebbe gelosamente custodito sono state fatte molteplici ipotesi. Secondo il pentito Antonino Giuffrè quei documenti sarebbero addirittura potute finire nelle mani di Matteo Messina Denaro. Certo è che quelle carte potrebbero costituire una vera e propria arma di ricatto. L’anticipata perquisizione del covo da parte dei Carabinieri potrebbe quindi rappresentare l’azione preventiva di uno Stato-mafia all’interno di una strategia criminale. Mori e De Caprio sono stati assolti il 20 febbraio del 2006 “perché il fatto non costituisce reato”. Paradossalmente nella vicenda si poteva scorgere “una ragion di Stato” ma non il dolo. “La condotta di Mori e Ultimo – aveva specificato il pm Antonio Ingroia ai giudici nella sua requisitoria – sono state dettate da ragioni di Stato e non da altro”. Su quella sentenza di assoluzione pesa come un macigno la lettera di Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’associazione tra i familiari vittime di via dei Georgofili, inviata ad Ingroia: “La perquisizione tempestiva del nascondiglio di Riina – scriveva la madre di Francesca Chelli, rimasta gravemente ferita nell’eccidio di Firenze – avrebbe potuto evitare le stragi del 1993? Oggi i nostri parenti sarebbero ancora vivi?”. Un interrogativo angosciante che attende ancora una risposta definitiva.
di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo – tratto da www.antimafiaduemila.com – 6 marzo 2015
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