Pasqua vuol dire “passaggio”, l’origine della parola indica il passare, ci ha ricordato Salvo Vitale l’anno scorso (QUI). La prima Pasqua è il passaggio finale della schiavitù in Egitto, la ribellione al Faraone e le catene spezzate con l’esodo nel deserto. Oggi la schiavitù del Faraone ha tanti volti ed è pienamente operativa:
Mai come oggi catene sempre più massicce opprimono, schiavizzano, impoveriscono, violentano, brutalizzano. Minacciano l’umanità e la sua stessa sopravvivenza. “Siamo in guerra, ve ne siete accorti?” chiedeva Dino Frisullo 16 anni fa. Una domanda quanto mai attuale, davanti a vecchie e nuove guerre che esplodono e minacciano i poveri, gli ultimi, gli indifesi delle società. Perché in guerra si arricchiscono mercanti di morte, si rafforzano imperatori e potenti. E si muore nelle classi più deboli e povere.
Siamo in guerra, a tutti i livelli. Una guerra dichiarata agli emarginati delle società, agli impoveriti, a chi vive (per dirla con Alex Zanotelli) nei “sotterranei della Storia”, ai malati, a lavoratori schiavizzati e sfruttati. Sono i faraoni moderni, che dichiarano guerra, sterminano popoli, devastano territori portando avanti veri e propri genocidi ecologici e sanitari (ne abbiamo ampie testimonianze anche a due passi da noi senza dimenticare quel che accade in varie zone dell’Africa come la Nigeria, dove corruzione e tangenti italiane sono ampiamente attive).
Faraoni moderni che fanno finta di commemorare i morti ma ostacolano e perseguitano i vivi. Fino a realizzare veri e propri leggi speciali, dividendo la società in oppressi e oppressori, garantiti e schiavizzati, perseguitati, marginalizzati da punire e reprimere. Unica colpa: essere stati impoveriti, non essere ricchi e potenti. Vent’anni fa la Kader i Radesh fu affondata da una corvetta del blocco ordinato contro chi fuggiva dalla crisi finanziaria albanese dal governo dell’epoca (primo ministro Prodi), 81 morti e tra 24 e 27 dispersi, la “strage del venerdì santo”. Il giorno dell’anniversario è stato approvato al Senato il nuovo “decreto immigrazione”, un provvedimento che insieme al “decreto sicurezza” criminalizza gli ultimi, colpirà i poveri e i più indifesi della società, migranti e cittadini italiani. Una campagna di criminalizzazione e repressione come quella contro chi persegue solidarietà e accoglienza, schierandosi con chi non ha voce e diritti garantiti. Tutto questo mentre aumentano sempre più nel mondo le spese militari (in Italia ormai 64 milioni di euro al giorno, mentre ormai il diritto alla salute, ai diritti civili, al sostegno delle persone disabili vien sempre più azzerato) e i tamburi di guerra rullano a più non posso. Siria, Congo, Sud Sudan, Asia, Ucraina.
Disertare dalla disumanità, dai muri e fili spinati, dalle guerre di classe, sociali, in nome degli interessi dei ricchi e dei potenti. In Italia, in Europa. E a tutte le latitudini. Rimettere al centro gli ultimi e i penultimi, i deboli e gli indifesi. Nel suo diario da Sarajevo, nella Jugoslavia martoriata dalla guerra, don Tonino Bello si chiese “Attecchirà davvero la semente della nonviolenza? Sarà davvero questa la strategia di domani? E’ possibile cambiare il mondo col gesto semplice dei disarmati? E’ davvero possibile che, quando le istituzioni non si muovono, il popolo si possa organizzare per conto suo e collocare spine nel fianco a chi gestisce il potere? Fino a quando questa cultura della nonviolenza rimarrà subalterna?” Domande che si concludono con l’incontenibile speranza, “le cose cambieranno se i poveri lo vogliono”. Ma gli ultimi, gli impoveriti, gli oppressi e i più deboli hanno bisogno di alleati, di solidarietà e umanità, di chi cammina al loro fianco. Davanti alla xenofobia montante, alla guerra contro chi giunge in Europa fuggendo da guerre, atrocità, abusi, povertà, alla “guerra mondiale a pezzi” che sempre più sta minacciando tutta l’umanità, parafrasando Alexander Langer abbiamo sempre più necessità di transfughi, di disertori delle compattezze “etniche”. E per farlo “c’è un solo modo: mettersi dalla parte delle vittime. Guardare il mondo, anche il nostro, con i loro occhi. Con gli occhi dei profughi, dei discriminati, degli incarcerati, degli affamati”. Dino Frisullo, che pronunciò queste parole e ne fece la “ragione sociale” della propria esistenza, concluse il racconto “Il Dirottamento” (dedicato alla kurda Malli Gullu, “rimpatriata dal paese che non vide mai”) con questo finale: “All’arrivo a Istanbul una grande folla lo attendeva. Travolsero i cordoni di polizia, guidati e trascinati dalle donne di Gebze. Uscirono dall’aeroporto, la bara di Malli Gullu in testa, ed erano già in mille. Quando attraversarono i quartieri di Istanbul e furono centomila, fu chiaro che neanche i blindati li avrebbero fermati. La notizia volò. Milioni di profughi si misero in cammino dall’Europa e da tutta la Turchia verso oriente. Verso il Kurdistan, verso il sole, il fieno e il pane”. Così Dino nel Kurdistan, ieri come oggi simbolo di ogni popolo oppresso e simbolo di umanità minacciata e colpita dalle guerre del Potere, sognava il “gesto semplice dei disarmati”, la forza degli impoveriti e degli ultimi che ribalta le prospettive dei potenti, dei faraoni, degli imperialismi moderni, dei ricchi. E delle loro guerre.
“Con il nostro sbarco a Gaza, abbiamo voluto dimostrare che la storia siamo noi. La storia non la fanno i governati codardi con le loro ignobili sudditanze ai governi militarmente più forti. La storia la fanno le persone semplici, gente comune, con famiglia a casa e un lavoro ordinario, che si impegnano per un ideale straordinario come la pace, per i diritti umani, per restare umani. La storia siamo stati noi, che mettendo a repentaglio le nostre vite, abbiamo concretizzato l’utopia, regalando un sogno, una speranza a centinaia di migliaia di persone. Che hanno pianto con noi, approdando al porto di Gaza, come i tre anziani palestinesi vittime della diaspora imbarcati sulle nostre navi, che non hanno mai potuto piangere sulle tombe dei familiari: hanno pianto, ma sono state lacrime di gioia. Il nostro messaggio di pace è un invito alla mobilitazione di tutte le persone comuni, a non delegare la vita al burattinaio di turno, a prendersi in prima persona la responsabilità di una rivoluzione. Una rivoluzione interiore che promuove quell’amore e quell’empatia che di riflesso cambierà il mondo. […]abbiamo dimostrato che la pace è possibile in medio oriente. Perchè se un ebreo israeliano come Jeff Helper è accolto come un eroe, addirittura un liberatore, da decina di migliaia di persone festanti in estasi (da quelli che la politica e i media si impegnano a dipingere come terroristi), allora la pace non è un’utopia e, se lo è, abbiamo dimostrato che a volte le utopie si concretizzano” (Vittorio Arrigoni, settembre 2008).
Alessio Di Florio
Fonte foto: Mir Sada, promossa da “Beati i Costruttori di Pace” e dall’associazione francese “Equilibre”, Agosto 1993
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