Se n’è andato a 90 anni e sette mesi una delle più alte espressioni del “genio italico”. Un compagno che non ha mai scelto precise bandiere sotto le quali militare, “il giullare”, come amava definirsi egli stesso, richiamando medievali figure di attori liberi che beffavano i signori stessi che li pagavano e che sapevano ridere anche quando erano presi in giro. L’uomo fuori dal coro, nella sua poliedrica genialità di drammaturgo, regista, scenografo, pittore, poeta e soprattutto comico. Quando gli diedero il Nobel per la letteratura tanti che in Italia speravano di averlo al suo posto ci rimasero male: possibile premiare con un riconoscimento così alto uno che non aveva mai scritto niente di veramente completo, un comico che amava improvvisare, un comunista che trasmetteva messaggi destabilizzanti per il potere? Eppure a Stoccolma hanno visto ben più lontano di quanto non vedevano in un’Italia piena di pregiudizi, di retorica, di letteratura aulica, di raccomandati portabandiere delle case editrici. A Stoccolma sapevano che agli aveva scritto una mole sconfinata di lavori, di note critiche, di ricerche sulle origini del linguaggio e della letteratura, di ricostruzioni storiche alternative e molto più attendibili delle riflessioni e delle notizie riportate sui testi ufficiali della letteratura italiana e più di cento lavori teatrali di altissimo pregio nella sua linea guida di satira e beffe per il potere precostituito e per le sue perversioni, come leggiamo nella motivazione del Nobel, “seguendo la tradizione dei giullari medioevali dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi”.
Leggiamo sul Corriere della sera, in un articolo di Giuseppina Manin, che riprendiamo in buona parte:
Un’esistenza lunga e fortunata. «Esageratamente fortunata», ripeteva lui che a differenza di quelli mai contenti sapeva dire grazie alla sorte. Quando mai il figlio di un capostazione, nato il 24 marzo del 1926 in un paesino del lago Maggiore, poteva sognare quel destino buffo che le stelle avevano in serbo per lui?
Tutte quelle vite, una più straordinaria dell’altra, una dentro l’altra, riflesse come in un gioco di specchi capace di moltiplicare il tempo e le storie. Dagli anni dell’Accademia di Brera, così ricchi di stimoli culturali, ai brutti mesi con la divisa della Repubblica di Salò «per non finire deportato in Germania». Dai testi radiofonici del Poer nano all’esordio con Parenti e Durano al Piccolo Teatro con Il dito nell’occhio, all’unica esperienza cinematografica, con Carlo Lizzani che gli cuce su misura il film “Lo svitato”. Ma fatale è l’incontro con Franca, la donna della sua vita, la compagna di scorribande d’arte e d’amore. Di bellezza folgorante, corteggiata da tutti, manda in tilt Dario inchiodandolo senza preamboli con un bacio, visto che lui non osa avvicinarla. Amore a prima vista, matrimonio borghese, in chiesa a Sant’Ambrogio, la nascita di un figlio, Jacopo, che erediterà la loro passione per la scena. Un’unione salda anche se inquieta e fuori da ogni schema. Fo e Rame uniti nonostante tutto dentro e fuori scena.
Insieme danno vita agli scombinati titoli degli anni 50-60, Gli Arcangeli non giocano a flipper, Chi ruba un piede è fortunato in amore, La signora è da buttare. Insieme debuttano in tv nella scandalosa Canzonissima del ‘62 che gli costò la messa al bando per 14 anni dalla Rai democristiana. E poi il grande successo di Mistero Buffo nel ‘69, dove Fo riprende a modo suo la lezione dei fabulatori e dei cantastorie, raccontando tra sacro e profano, sberleffi e commozione, le storie della Bibbia e dei Vangeli, di papi tronfi e di villani sagaci. Ma il ‘69 è anche l’anno della strage di piazza Fontana, inizio della strategia della tensione. Storia e cronaca entrano prepotenti nel teatro di Dario, che sera dopo sera scrive e riscrive le pièce modificandole in diretta sugli eventi. Così è per Morte accidentale di un anarchico, sulla morte di Pinelli; così per Il Fanfani rapito, Non si paga non si paga, Pum pum! Chi è? La polizia, Tutta casa, letto, chiesa, Clacson, trombette e pernacchi. Sono gli anni ruggenti della Palazzina Liberty. Un teatro che, come scrisse Roberto De Monticelli, aveva dentro «il nero dei titoli dei giornali». E difatti la polizia trovava ogni pretesto per fermare gli spettacoli, irrompendo talora anche in teatro. Con grande divertimento di Dario pronto a trasformare quell’imprevisto in una nuova farsa. Un susseguirsi di satire al vetriolo, sulle quali Dario spandeva a piene mani il suo grammelot, folle assemblaggio di suoni di parlate diverse, nonsense linguistici accessibile a tutti. Una magnifica invenzione che, insieme con l’imponente corpus drammaturgico, quasi un centinaio di testi teatrali, gli valse nel 1997 il Nobel per la letteratura.
Un buffone irriverente che aveva come punti di riferimento Ruzzante, Molière, e soprattutto sua moglie Franca, compagna inseparabile sulla scena e nel momento in cui creavano i loro capolavori, con la quale volle spartire la medaglia. Quando Franca è morta il 29 maggio del 2013, e poco tempo dopo anche l’amico Enzo Jannacci, egli ha provato ad andare avanti da solo, continuando a scrivere, a recitare, ad essere presente anche nell’agone politico, ma non è durata solo tre anni.
Con disperato furore e rinnovata vitalità Fo non si dà tregua. Scrive un libro dopo l’altro, dipinge con l’energia e la gioia di un ragazzo quadri di colori vivacissimi esposti in mostre in Italia e all’estero. Sempre attentissimo alla vita pubblica, non si perde una polemica, tiene banco a incontri, continua ad andare in scena con il testo più amato, Mistero Buffo, nonostante il parere contrario del medico, nonostante il fiato gli manchi sempre più spesso. L’estate nella casa di Cesenatico, così cara anche a Franca, non riesce a frenare tanta smania di vivere e di fare. Di morire Dario non ha nessuna intenzione. «Non temo la morte ma neanche la corteggio. Se hai campato bene è la giusta conclusione della vita». Anche sul letto d’ospedale, nonostante la maschera d’ossigeno, ha trovato la forza di scherzare sul suo stato di salute: «È come una sfida a ramino. Puoi vincere o perdere, ma quel che conta è la partita». Certo, ingannare la morte lo divertirebbe. Sarebbe pronto anche a barare… Mesi fa, nel cortile della sua casa milanese di Porta Romana, era rimasto incantato davanti a una rosa sbocciata all’improvviso, fuori stagione. Si era convinto che fosse stata Franca a fargli quel dono, come segno di una sua presenza costante. «Lei è sempre accanto a me, ogni volta che non so come trarmi di impaccio, la chiamo e mi risponde». Quella rosa ne era la prova provante. Chissà se adesso lì accanto ne crescerà un’altra.
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