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Censure vecchie e nuove

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L’attacco che i due esponenti pentastellati Di Battista e Di Maio hanno scatenato nei confronti dei giornalisti e dei mass media in genere, dopo l’assoluzione di Virginia Raggi lascia sbalorditi per la violenza delle parole usate e per la ventilata prospettiva di affidare le notizie da trasmettere al controllo di una Commissione, che dovrebbe far seguito a un’altra possibile Commissione che si occupi di verificare le affermazioni scientifiche fatte da Piero Angela e figlio, prima di metterle in onda. Sembra di tornare a fantasmi del passato, come il famigerato Minculpop (sigla di Ministero della Cultura Popolare) che, durante il Fascismo si occupava di vagliare tutto quello che veniva pubblicato, per non parlare, andando più indietro nel tempo, del Tribunale dell’Inquisizione, con il quale la Chiesa consentiva la pubblicazione solo a ciò che otteneva l’imprimatur, ovvero il “si può stampare”, dopo il vaglio degli inquisitori. Esisteva un Indice dei libri proibiti, creato nel 1559, che mise al bando i più importanti intellettuali della cultura europea, da Galilei, a Giordano Bruno (arso vivo), a Cartesio, a Spinoza, a Pascal fu soppresso dalla Congregazione per la dottrina della fede il 4 febbraio del 1966. Non parliamo dei roghi pubblici dei libri portati avanti dai gerarchi nazisti. È un modo terribile di mettere il bavaglio a tutte le voci scomode e di lasciare circolare solo notizie e giudizi favorevoli al regime. Insomma il ricorso a sistemi tipici delle dittature. Anche Trump, negli Stati Uniti non cessa di scagliarsi contro i giornalisti che si permettono di criticare il suo operato e di minacciare provvedimenti e ritorsioni. E tuttavia la stampa americana, poiché dispone di anticorpi più collaudati e di grandi testate che hanno una loro indipendenza economica, non ha problemi. Il Washington Post riuscì a mettere in stato d’accusa il presidente Nixon e a farlo dimettere.

In Italia la situazione è più delicata. Gran parte delle testate dispone di finanziamenti pubblici e di introiti pubblicitari ed è spesso la cassa d’amplificazione di partiti o gruppi politici che le finanziano. Da questo aspetto Di Battista e Di Maio non avrebbero del tutto torto nel ritenere “pennivendoli” e “puttane” certi giornalisti. Solo che questo modo di sparare nel mucchio, senza rendersi conto che in questo modo si spara sulle regole della democrazia, dimostra quanta scarsa formazione politica e quanta tolleranza della pluralità delle opinioni ci sia in un movimento che, nato per contestare, si ritrova in forte imbarazzo nel momento in cui è contestato.

Manco a dirlo l’oggetto degli strali cinquestellati è il quotidiano la Repubblica che, è vero, è espressione della cultura di sinistra o di quel che ne resta, ma che non esita ad assumere posizioni critiche ad di là degli schematismi ideologici. Non è chiaro perché non si mettono nel mirino anche giornali “amici”, come Il Fatto quotidiano o pietosi  giornali pagati da Berlusconi, come Libero e Il Giornale, o il neo portavoce leghista La Verità. Come al solito e come era già per Berlusconi sembra che il nemico da colpire, l’unico, sia tutto ciò che sta a Sinistra, tant’è che la risposta, ogni volta che si avanza una critica è sempre la stessa: “Sì, ma il PD….”. Ed è arrivata anche una lista dei giornalisti “virtuosi”, così come alcuni anni fa era stata compilata da un’Associazione di neocamerati, una lista dei giornalisti e poi degli insegnanti “comunisti”.

Anche da questa emittente abbiamo diverse volte denunciato la presenza di “pennivendoli” non solo asserviti a gruppi economici e politici, ma anche a certi settori della magistratura che dei giornali si servono per passare loro notizie, anticipazioni, registrazioni, al fine da creare opinioni favorevoli alle tesi con cui si predispone un processo e si creano gli imputati. Per non parlare di certi atteggiamenti della stessa magistratura, spesso caratterizzati da atteggiamenti persecutori nei confronti di chi si permette di mettere in discussione il suo operato. Quello che è successo prima che ci si accorgesse delle perversioni causate dalla legge sulle misure di prevenzione e del sistema Saguto, è emblematico, dal momento che nei confronti dell’emittente Telejato si è addensata una bufera di denunce, in particolare contro Pino Maniaci, Salvo Vitale e Riccardo Orioles, rei di avere a loro volta denunziato che non è tutto oro quel che luce all’interno del palazzo di giustizia. Davvero non è facile fare giornalismo libero in Italia. La condanna di Danilo Dolci, reo di avere denunciato “presunte” collusioni mafiose del ministro Bernardo Mattarella, e poi di avere messo in onda la voce dei terremotati del Belice, con riferimento all’art. 21 della costituzione, costituiscono momenti di una giurisprudenza della quale i giornalisti sono stati spesso vittime privilegiate. Non è facile sottrarsi alla possibilità di essere querelato per diffamazione, in virtù di una legge che, invece di invitare a una pacifica soluzione del conflitto con una replica chiarificatrice, espone il giornalista a ritorsioni e vicende giudiziarie che spesso si concludono con condanne a pene pecuniarie. C’è addirittura chi punta direttamente, assieme al suo legale, a spillare denaro al suo presunto diffamatore, per estinguere la falsa notizia di cui si ritiene vittima. Al punto che chi scrive, accanto alla censura o alla benedizione di chi legge, è spesso costretto a forme di autocensura per evitare guai. Con grande soddisfazione di chi gli ha chiuso la bocca.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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