Il caso è scoppiato cinque anni fa. Ci sono voluti tre anni di processo, sono stati ascoltati quasi un centinaio di testimoni in un centinaio di udienze e alla fine oggi dovrebbe arrivare la sentenza nei confronti di Silvana Saguto e di tutta la sua cricca che nel passato decennio, e anche prima è stata la signora assoluta dell’Ufficio misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, dando vita a quello che i giudici di Caltanissetta hanno definito “un sistema perverso e tentacolare” e che da questa emittente, sin dall’inizio avevamo definito “il cerchio magico”, definizione poi ripresa da tutti i giornali e i media che si sono occupati dell’argomento. Rivendichiamo con orgoglio di avere scoperchiato questo pentolone al quale si abbuffavano senza ritegno giudici, avvocati, cancellieri, amministratori giudiziari, periti, collaboratori, parenti, amici vari, docenti universitari, commercialisti, prefetti, generali e militari vari, e un indistinto altro numero di persone sempre attente a dividersi briciole e piatti succulenti di imprenditori ai quali si faceva presto ad affibbiare l’etichetta di mafiosi per procedere al sequestro dei loro beni. Abbiamo nel tempo denunciato e individuato un centinaio di casi in gran parte assolti e prosciolti penalmente, ma ritenuti invece colpevoli senza processo dalle decisioni del collegio che decideva le misure di prevenzione. Dopo la destituzione della Saguto e la sua sostituzione, prima con il giudice Montalbano, poi con il giudice Raffaele Malizia, qualcosa è cambiato e sono stati molti gli imprenditori che si sono visti riconsegnare i loro beni, dei quali, purtroppo, non era rimasto più niente. La rovina di questi imprenditori ha segnato anche forti momenti di crisi nell’imprenditoria siciliana, già da sempre sotto il mirino delle indagini antimafia, oltre che sotto quello delle estorsioni mafiose. In parecchi casi le vittime del pizzo sono state ritenute complici e finanziatori dei loro estorsori, in altri casi la loro collaborazione è stata ritenuta un espediente per evitare il sequestro e sono state utilizzate tutte le informazioni di chi aveva deciso di collaborare, come elemento di accusa per procedere ugualmente ai sequestri nei confronti degli stessi collaboratori. Avevamo sin dall’inizio individuato come il punto debole di tutta la legge, “ispirata” dalla Rognoni-La Torre, ma con origini e casistiche più lontane e sovente diverse, ovvero la divaricazione tra il procedimento penale e quello preventivo, ritenendo che sulla base di sospetti e indizi non si può procedere a preventive condanne e che, per contro le condanne penali avrebbero essere il punto di riferimento. Da allora è partita una campagna per rivedere alcuni punti di una legge, dalla quale è stato possibile l’espandersi di un sistema perverso, come quello messo in atto dalla Saguto e dei suoi complici, sono stati fatti diversi convegni, ma la battaglia sembra essere ancora all’inizio, dal momento che si tratta di ridimensionare un’arma che, nelle mani dei giudici, può essere micidiale. Non è mancato il solito talebano imbecille che ci ha accusati di volere cancellare la legge Rognoni La Torre, o, addirittura di lavorare per agevolare la mafia: si tratta di giornalisti a senso unico, che non hanno vissuto il dramma delle persone vittime di questo sistema e si trincerano dietro una concezione superficiale e scorretta del fare antimafia. In attesa della sentenza Saguto è questo il segnale e il senso della nostra battaglia, ovvero gettare le basi di una giustizia antimafia equa e che adegui le norme in atto alla legislazione europea: non è il caso di ricordare che proprio la Corte Europea di Strasburgo ha condannato più volte l’Italia per una serie di norme che mettono in discussione il diritto costituzionale di ogni cittadino di essere ritenuto colpevole dopo una sentenza e di avere tutelato il diritto di proprietà.
Ma torniamo al processo. Dopo la lunga requisitoria dei pm Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti, alla presenza dell’allora Procuratore Amedeo Bertone, ora in pensione, sono stati chiesti per l’ex giudice 15 anni e 4 mesi di carcere, oltre che l’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici, poiché la Saguto è stata ritenuta “la figura centrale di un vincolo associativo stabile” e avrebbe “sfruttato e mortificato il suo ruolo di magistrato” in “un quadro desolante” in cui “ci sono pubblici ufficiali e magistrati che hanno tradito la loro funzione per interessi privati”. Per contro l’avvocato della difesa Ninni Reina nella sua arringa difensiva, ha respinto ogni accusa parlando di un “processo anomalo, sia per quantità che per qualità”.
La Procura ha chiesto anche la condanna a 9 anni e 10 mesi per Lorenzo Caramma, marito dell’ex magistrato Silvana Saguto, la condanna a 12 anni e sei mesi per l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, ex re degli amministratori giudiziari, quella a 11 anni e 10 mesi per l’ex docente della Kore di Enna Carmelo Provenzano, e ancora, per Nicola Santangelo, amministratore giudiziario, 10 anni e 11 mesi di reclusione, per Walter Virga, figlio del magistrato Vincenzo, anche lui amministratore giudiziario, 2 anni, per Emanuele Caramma, figlio della Saguto, sei mesi, per Roberto Di Maria, 4 anni e 4 mesi, per Maria Ingrao 5 anni, per Calogera Manta 4 anni e sei mesi, per Rosolino Nasca, colonnello della Dia, 8 anni, per l’ex Prefetto Francesca Cannizzo sei anni, per Lorenzo Chiaramonte 2 anni e sei mesi; per Aulo Gabriele Gigante “assoluzione per non aver commesso il fatto” e così dicasi per Vittorio Saguto, padre dell’ex magistrato. Il Pm Maurizio Bonaccorso aveva anche chiesto la trasmissione degli atti per il reato di falsa testimonianza nei confronti di 14 testi che hanno deposto tra i quali l’ex prefetto Stefano Scammacca, i magistrati Giuseppe Barone e Daniela Galazzi, l’amministratore giudiziario Giuseppe Rizzo, gli avvocati Vera Sciarrino, Alessio Cordova e Dario Majuri. Gli altri testi per i quali il Pm ha chiesto la trasmissione degli atti sono i commercialisti Roberto Nicitra e Gianfranco Scimone, gli impiegati della Motor Oil Dario e Giuseppe Trapani, e tre collaboratori del professore universitario Giuseppe Provenzano, che è imputato: Laura Greca, Marta Alessandra e Alessandro Bonanno. Il giudice Bonaccorso ha detto fra l’altro: “Non so come finirà, magari Nicola Santangelo e Carmelo Provenzano verranno assolti, ma per questa vicenda dovranno vergognarsi a vita”, ed ha aggiunto: “Questo processo è stato definito, con una espressione alquanto infelice, il ‘processo all’antimafia’. Niente di più sbagliato. Questo è un processo a carico di pubblici ufficiali, magistrati, amministratori giudiziari, avvocati, che hanno strumentalizzato il loro ruolo importante e hanno tradito la loro funzione per interessi privati….Hanno fatto un danno incalcolabile all’immagine dell’amministrazione della giustizia……Il problema è quello di ipotizzare che avendo fatto antimafia hanno una sorta di ‘licenza di uccidere’, una ‘licenza di delinquere’ per quello che viene dopo. E il nostro processo riguarda proprio le condotte successive che si sono concretizzate in gravi reati perché non si può consentire di mortificare l’azione di un magistrato e svolgere un’attività predatoria”. Durante questo lungo processo la Saguto si è difesa sbandierando la sua agenda, nella quale, a suo dire, erano scritti i nomi e le segnalazioni fatte dai suoi colleghi, per ottenere favori. Il giudice Bonaccorso ha commentato: “Avrei preferito che l’agenda oggi venisse depositata al ricordo ma così non è stato. Sarebbe stato più elegante che agitarla…”. Tra le tante considerazioni della requisitoria del pm si nota come “L’ufficio della sezione di Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo è stato trasformato in un ufficio di collocamento e gli amministratori giudiziario hanno avuto un comportamento predatorio”.
Nulla di nuovo rispetto a quanto, a partire dal 2013, da questa emittente abbiamo denunciato e ripetuto, quasi giornalmente, pagando anche lo scotto del nostro coraggio con denunce e condanne per diffamazione, per non parlare del “caso Maniaci“, scientificamente montato ad arte, dai colleghi della Saguto, per chiudere la bocca al giornalista e ai suoi collaboratori e per infangarne l’immagine con una serie di illazioni e diffusione di notizie sulla cui attendibilità e sulla cui reità si aspetta ancora la sentenza che dovrebbe anch’essa arrivare entro l’anno.
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