Intrapresa la carriera militare, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 entrò nella Resistenza, operando in clandestinità nelle Marche, dove organizzò i gruppi per fronteggiare i tedeschi. Nel dicembre del 1943 entrò tra le linee nemiche con le truppe alleate ritrovandosi in una zona d’Italia già liberata. Nella sua carriera si distinse per la lotta al banditismo campano e siciliano, particolarmente quello del bandito Salvatore Giuliano, per le indagini sull’omicidio di Placido Rizzotto, per gli interventi in favore dei terremotati del Belice, per alcune delicate indagini di mafia nel suo soggiorno siciliano del 1966-73, come quelle su Mauro De Mauro e sul Procuratore Scaglione. Il risultato di queste indagini fu il dossier dei 114, nel quale si fecero per la prima volta i nomi di Gerlando Alberti e Tommaso Buscetta come elementi centrali di molti fatti di sangue, oltre che quelli di Luciano Liggio e Michele Greco. In conseguenza del dossier, scattarono decine di arresti dei boss, proposte di confino. L’innovazione voluta da Dalla Chiesa fu quella di non mandare i boss al confino nelle periferie delle grandi città del nord Italia, ma pretese che le destinazioni fossero le isole di Linosa, Asinara e Lampedusa. Dal 1966 al 1973 tornò in Sicilia con il grado di colonnello, al comando della legione carabinieri di Palermo. Iniziò particolari indagini per contrastare Cosa nostra, che nel 1966 e 1967 sembrava aver abbassato i toni dello scontro in atto nei primi anni 60.
Nel 1973 fu promosso generale di brigata, nel 1974 divenne comandante della regione militare di nord-ovest, con giurisdizione su Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria e organizzò la lotta al terrorismo delle Brigate Rosse. Dopo avere coperto tutte le tappe della carriera militare, il 5 maggio 1982, venne nominato dal consiglio dei ministri prefetto di Palermo, e posto contemporaneamente in congedo dall’Arma. Dalla Chiesa inizialmente si dimostrò perplesso da tale nomina, ma venne convinto dal ministro Virginio Rognoni, che gli promise poteri fuori dall’ordinario per contrastare la guerra tra le cosche che insanguinava l’isola. Il 12 luglio nella cappella del castello di Ivano Fracena, in provincia di Trento, sposò in seconde nozze Emanuela Setti Carraro.
A Palermo, più volte, e in particolare in un’intervista concessa a Giorgio Bocca, il Generale dichiarò la carenza di sostegno e di mezzi, necessari per la lotta alla mafia, che nei suoi piani doveva essere combattuta strada per strada, rendendo palese la massiccia presenza di forze dell’ordine alla criminalità. Stava cominciando a raccogliere i primi frutti del suo lavoro quando venne ucciso, assieme alla moglie e all’agente di scorta Vincenzo Russo. Qualcuno, sul muro in cui venne ucciso scrisse: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”.
La vicenda dei depistaggi e delle anomalie verificatesi nel corso delle indagini, la scomparsa della borsa con i documenti, la cassaforte della prefettura prima chiusa, poi aperta con una chiave trovata in un cassetto dove prima non c’era niente, e infine una serie di interrogativi legati alle indagini su Andreotti e sui politici che lo mandarono allo sbaraglio in Sicilia, senza alcuna copertura sono solo alcuni momenti di una vicenda ancora piena di lati oscuri, come quasi sempre succede nei delitti di mafia.
3 settembre 1982 – 3 settembre 2018: sono passati trentasei anni e la figura del “Generale” è ancora viva, non solo nel ricordo, ma in quello che ha lasciato, nei suoi metodi d’indagine, nella sua capacità di rapportarsi con i mafiosi a viso aperto, e, soprattutto, nella sua grande integrità morale, che lo ha indotto a tracciare la strada della sua vita senza compromessi e senza paura, anche a costo della propria vita, anche a costo di indagare su intoccabili politici e imprenditori. Molto è stato detto e scritto sulla domanda d’iscrizione di Dalla Chiesa alla P2, cosa che per i militari di alto grado era un passaggio quasi normale. Il Generale, per quel che se ne sa, non diede alcun seguito e forse questo distacco con uno dei centri del potere occulto in Italia fu una delle cause che ne provocò la morte. Ad eseguire la sentenza furono i mafiosi, ma non è stato mai chiarito se dietro ad essi c’erano altri ben più importanti personaggi. Oggi è il caso di sperare, di credere ancora, di gridare: “No, Carlo Alberto, la speranza dei siciliani non è morta, vive anche grazie al tuo sacrificio”.
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