«Io mi tengo quello che so e basta». Ne era convinta quattro anni fa, Silvana Saguto, e forse ne è convinta ancora adesso. Del resto, perché rivelare dettagli su un nemico giurato, non fornendogli altro che un motivo in più per farsi odiare? E, magari, pure qualcosa di più, se il nemico in questione si chiama Giovanni Brusca. Affiliato alla famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato tra il ’75 e il ’76, all’inizio è solo un soldato semplice fino all’ascesa, alla fine degli anni ’80, nel ruolo di reggente del mandamento. Viene arrestato nel ’96, pentendosi poco dopo: leggendo un articolo di giornale aveva scoperto che Totò Riina voleva ucciderlo, si era messo in testa che avesse trattato con un trafficante di droga per fare degli affari senza il suo placet e che avesse ucciso l’agente Agostino e la moglie. «Io non ho mai avuto contrasti con nessuno, nemmeno per una multa di parcheggio abusivo. Per Riina io stravedevo, mi chiedevo “ma chi mi ci ha portato a tutto questo, a diventare un mostro solo perché credevo in lui“. Ma non ci pensavo a collaborare, non era nelle mie idee. Ma l’arresto è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso», racconta oggi lui stesso.
Un collaboratore sui generis, in un certo senso, che non sembra esattamente pentito della sua appartenenza a Cosa nostra e delle cose fatte, malgrado le scuse tardive rivolte pochi mesi fa ai famigliari delle vittime uccise. Non stupisce quindi che qualcuno possa, in un certo senso, temerlo ancora. Persino un ex giudice, fino a qualche anno fa a capo delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo. «È assolutamente persona che rimane socialmente pericolosa e che sicuramente per quello che ha fatto, a prescindere dal fatto che lui si è dissociato dalla mafia, ha una sua pericolosità intrinseca elevatissima, perché una persona che riesce ad ammazzare un bambino che era suo figlioccio non lo ferma nessuno». Silvana Saguto, oggi sotto processo a Caltanissetta per una presunta gestione illecita dei beni confiscati, sembra conoscerlo bene. «So chi glieli intesta i beni a Brusca – racconta a un collega, ignara di essere intercettata -, perché io a Brusca l’ho sentito da latitante…cioè so tutto quello che faceva da quando era piccolo…e poi da quando era grandetto e faceva il killer. Poi da quando diventa capo mandamento al posto del padre e poi quando si gestisce gli appalti… Tutte queste cose io le so, quindi appena Brusca sgarra e io trovo un bene intestato a un suo parente io già so che è suo».
Il timore che avrebbe, però, di lui sarebbe tanto che quattro anni fa non sarebbe stata troppo convinta di mettere i colleghi della procura sulle tracce del suo presunto patrimonio rimasto intoccato. Le intercettazioni, registrate durante le indagini che hanno portato al processo che si celebra a Caltanissetta contro di lei, e altri tra familiari ed ex colleghi riguardo a una presunta gestione illecita dei beni confiscati, svelerebbero una Silvana Saguto molto dubbiosa, impaurita e poco convinta anche che le sue rivelazioni sul boss di San Giuseppe Jato potrebbe effettivamente sortire degli effetti investigativi. Col timore, fra i tanti, che qualora si indaghi su eventuali altri beni possa trapelare il nome della fonte, il suo, inimicandole ulteriormente uno come Giovanni Brusca, che «non è uno così, è uno brutto, che ce l’ha con me in maniera proprio dichiarata». Uno che, fra le altre cose, gode di certe concessioni che la legge riconosce a chi collabora con lo Stato. Uno che con la legge Gozzini per esempio, che prevede la semi libertà dopo 15 anni di galera, potrebbe presto tornare a piede libero, «altri due giorni e questo va girando, con tutti i sacri sentimenti». Perché, allora, disturbare il cane che dorme? «Tanto, ne ha tante cose Brusca, quelle altre quattro in più che so io di Piana…pazienza».
Secondo lei infatti, nel 2015 molti dei beni ancora presumibilmente nelle disponibilità del boss sarebbero soprattutto a Piana degli Albanesi, dalle villette ad alcuni supermercati. Ci sarebbe anche un noto bar, di cui però, ne sembra certa, non sarebbe oggi gestito con metodo mafioso. Non può non domandarsi, però, con quali soldi sia stata avviata quell’attività. Tra le proprietà riconducibili al pentito ci sarebbe anche un magazzino, affittato fin dal 2007 con un contratto di comodato d’uso mai registrato all’Agenzia delle Entrate, alla Chiesa evangelica apostolica di Palermo e alcuni monolocali a San Giuseppe Jato, sequestrati nell’agosto di quattro anni fa. Malgrado, solo due mesi prima, l’ex presidente delle Misure di prevenzione lamentasse proprio una certa inerzia rispetto a questi beni. «È una vergogna che Brusca c’abbia mezza Piana», si lamentava lei coi colleghi.
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