I recenti avvenimenti hanno portato alla ribalta Partinico, evidenziandone alcuni dei più deleteri aspetti. Anche gli studi di storici passati, dal Marchese di Villabianca, al Di Bartolomeo, a Salamone Marino, a Stefano Marino, a Carmelo Pardi, a Salvatore Bonnì, a Giuseppe Casarrubea a Danilo Dolci, non sono sempre teneri nei confronti di quelli che, nel libro “Quotidiano e Immaginario in Sicilia”, ho chiamato “aspetti antropologici del carattere dei Partinicesi”. L’analisi più completa sull’argomento è stata scritta da Pasquale Marchese, grande intellettuale che a Partinico ha vissuto gli ultimi anni della sua vita, sistemando e salvando molti documenti sulla vita quotidiana dei partinicesi nell’800. Questi atti sono stati da lui a me consegnati, mesi prima della sua morte, affinchè li digitalizassi e cercassi di curarne la pubblicazione. Ho chiesto aiuto per una composizione editoriale adeguata a Leo D’Asaro, che se n’è occupato. A seguito di una serie di vicende rocambolesche il testo è poi passato da una mano all’altra sino a finire presso amici di Pasquale che sono riusciti a raccogliere i fondi per la pubblicazione, stampata nel 2016 per le edizioni Torri del Vento con l’impossibile titolo “Morino, racioppi e cappeddi”. Dalle prime pagine di quel libro ripropongo queste osservazioni (Salvo Vitale)
Con la scolarità più diffusa, con la televisione in ogni casa (o in ogni stanza) e l’omologazione nazionale sempre più avanzata diventa difficile e azzardato trovare i caratteri distintivi o i particolari problemi di una provincia. Perché il livellamento sale veloce. Ancora più difficile è per una singola città specialmente per le nuove generazioni di giovani che partono e tornano continuamente, per lavoro, per la scuola, il turismo o lo sport. Difficile e azzardato è diventato cercare e trovare dei tratti distintivi del pensiero e del carattere dei Partinicesi. Vogliamo provarci lo stesso, anche se i margini di approssimazione diventano ogni giorno più labili. Ma pensiamo che la loro storia dell’Ottocento, che hanno vissuto e sofferto interamente, abbia lasciato delle tracce indelebili che né la TV né la scuola sono ancora riusciti a livellare del tutto o cancellare. (più la Tv che la scuola, perché la scuola è fatta sempre da professori che vengono dalle stesse famiglie degli scolari, con lo stesso vizio di origine, purtroppo.) Premettendo ancora che è sempre difficile (ed odioso) fare e accettare dei raffronti tra bianchi e neri, tra milanesi e napoletani, etc. etc. che è ancora più difficile (e azzardato) trovar delle differenze tra siciliani e siciliani, mettiamo anzitutto avanti la nostra assoluta buona educazione e pacifica intenzione per avventurarci in questo terreno minato dei giudizi che non vogliono essere, e non sono, giudizi lapidari e sentenze inappellabili ma soltanto impressioni affettuose e fraterne, deduzioni ragionate, di uno che se per caso non è nato qui, vi ha vissuto per mezzo secolo, trovandovi accoglienza.
Se si potesse parlare dei Partinicesi dell’Ottocento in generale, come se fossero un solo uomo, e onestamente non si può, anche alla luce di queste carte tratte dall’archivio comunale, che cosa si potrebbe dire? Cosa si dovrebbe dire? Quale impressione lasciano? E perché?
Tutti gli scrittori sono d’accordo, almeno, sul carattere fiero e indomito dei Partinicesi, qualcuno li dice addirittura feroci e selvaggi o inselvaggiti. Garibaldi a cui è offerta la cittadinanza onoraria di Partinico, risponde: “Accetto con orgoglio la cittadinanza di Partinico, della città che diede l’esempio del come si trattano gli oppressori della patria. I prodi di Partinico non hanno contato quanti erano i nemici, ma li hanno assaliti coraggiosamente e debellati.”
Il marchese di Villabianca aveva molti possedimenti a Partinico e quindi doveva trattare con molti “villani” locali, giudica molto severamente la nuova borghesia nascente, i Cappelli, che vogliono l’autonomia della città di Partinico, autonomia “che giammai è stata accolta dalla popolazione, anzi formalmente sempre resa odiosa e detestata”. Perché il Popolo sa bene che, senza i privilegi che godeva Partinico sotto il Senato di Palermo, invece di pagarsi tari sei a botte di vino ed essere franchi da ogni altra gabella, arriverà la tassa “della farina e della macina della quale il Popolo non ne può sentire il nome ed è arrivato a tumultuare al solo tentarsene l’istituzione”, Perché gravava particolarmente sul Popolo e non sui “Cappelli che sono i tiranni della povera Gente”.
Stefano Marino scrive:
“Bruna come la perla ha la pelle il Partinicoto, mezzana e ben complessa la statura, gli occhi neri e castagni, come i capelli, incede grave, e ti guarda in guisa di non farti dubitare, che chiuda in petto moltissimo coraggio. Il Partinicoto è fervido nelle passioni, fatalista il villano ma industre, laborioso ed alieno dall’enfasi loquace”.
Quindi, oltre che industre e laborioso, è coraggioso, fervido e laborioso ma taciturno. Poi sconsolato confessa, ma da galantuomo non può azzeccare né le cagioni né le soluzioni:
“In alcune epoche ti si chiude il cuore se volgere vorrai lo sguardo alla statistica dei reati molto più, che da tale elemento misurasi l’attitudine delle passioni di un popolo. Si fallisce però in ogni parte della terra e lì maggiormente ove la morale pubblica va perduta. Ciò a quanto ne penso è avvenuto da tre cause potentissime: dai mezzi poco proporzio¬nati alla vastità del terreno, dall’inefficienza dai mezzi adoperati dalla morale disciplina e dalla locale noncuranza di cotanto maleficio.”
In conclusione chiede più guardie.
Carmelo Pardi da un lato si compiace che la popolazione progredisca e ogni giorno edifichi nuove case, d’altro lato, si lamenta che ci sia la piaga del malandrinaggio che affligge il paese. E, anche lui, chiede più guardie.
Non meriterebbero assolutamente di essere citati e discussi i gratuiti giudizi, dati certo in un rigurgito di bile, dal medico-folclorista Salvatore Salamone Marino su Borgetto suo paese natio (semenzaio di ladri e di puttane!),su Balestrate (sporco e puzzolente) e particolarmente su Partinico:
“Partinico adora un solo dio: l’omicidio; a un solo santo si raccomanda: alla carabina. Par nato dal sangue e pel sangue; e lo sparge in pubblica piazza in pieno mezzodì, senza scrupoli e senza paura. Inorridisco a dirlo, ma fu in Partinico che si ammazzò… un assai dabben notaio!”.
Ecco il perché di tanto odio! Perché i Partinicesi hanno ammazzato l’assai dabben notaio Di Bartolomeo e la sorella, nel 1860. Ancora giovinetto imberbe (era nato nel 1845) Salomone Marino avrà sentito raccontare in famiglia dell’efferato assassinio del notaio Di Bartolomeo, poi, ogni volta che per le feste è tornato al paesello natio, gli amici galantuomini ne avranno rinnovato il ricordo, con l’aggiunta di nuovi raccapriccianti particolari. Ogni volta il galantuomo don Salvatore Salamone Marino ne avrà tremato d’indignazione e di paura. C’era da capirlo: ad ogni occasione, gli amici galantuomini di Borgetto e di Partinico gli avranno duramente rinfacciato di essere stato troppo benevolo e indulgente verso i contadini descrivendo amorosamente i loro usi e costumi. Invece erano dei selvaggi!
“Lo vedi che cosa hanno fatto i tuoi buoni contadini?.! Lo vedi?.!…lo vedi?.!…Lo vedi?” Quasi fosse stata colpa sua se ora i contadini, non solo non leccavano più la mano ai padroni, ma addirittura facevano le sommosse violente contro i buoni galantuomini e bruciavano i Municipi, ammazzavano anche i notai!! Gli Schizzi dei costumi contadineschi del Salamone Marino erano del 1879-83 (raccolti poi in un unico volume, nel 1897). Mentre i duri giudizi su Partinico, Borgetto e Balestrate sono stati scritti al tempo delle sommosse dei Fasci dei lavoratori, nel 1891-93, quando a Partinico e in tutta la Provincia il Popolo affamato fece tremare di paura i galantuomini amministratori e, forse anche, qualche vicino parente del nostro dottore. Forse anche il suo vecchio e buon mezzadro ora non gli baciava più la mano, o, incredibile a dirsi, aveva anche osato chiedere più umane condizioni di lavoro e di vita.
E il paesello natìo che prima era tanto bello per i fine settimana felici e spensierati diventa ora “un vero semenzaio di ladri e di puttane, con certi preti satiri e certi impiegati vampiri che governano la sfracellata barca borgettana”. Gli avranno forse chiesto di pagare le tasse per le sue terre di Borgetto e nemmeno gli amici monaci l’avranno difeso, come facevano prima. Se no, perché tanto improvviso livore verso chi prima aveva cosi amorevolmente descritto nei loro usi e costumi domestici. Sulla morte del notaio Di Bartolomeo e di sua sorella, giustiziati in piena piazza, nel 1860, confermiamo le considerazioni già espresse per i fatti del 1860/1866 (vedi documento del 1866).
Daniele Lo Grasso non vede altro che Partinicoti devoti, che chiedono e ottengono protezione dalla Madonna del Ponte. Nel suo grosso volume di festeggiamenti non si trova mai un giudizio morale su qualcuno, ovviamente tutti sono buoni, ancorché affamati. Daniele Lo Grasso del popolo affamato e minaccioso se ne accorge solo quando serve per elevare il panegirico agli Arcipreti Palazzolo e Rosso che intervengono puntuali a salvare la città. Ammettendo quindi che esistesse il popolo e che era pericoloso.
I giudizi di Salvatore Bonnì sono diversi e vari. Sono elogiativi quando per orgoglio paesano apprezza le iniziative che avrebbe voluto più eroiche; sono negativi e sta zitto quando vede che le ribellioni popolari non ottengono nulla e il popolo resta abulico:
“ I Siciliani (e i Partinicoti) si distinguevano per conservatorismo anarchico, per incapacità di aperture sociali, per mancanza di iniziative e di ideali, per mancanza di slanci vitali atti a far sollevare le masse” Dalle carte ripugnanti, e spesso indecifrabili dell’Archivio comunale non traspare anelito di vita sociale, nessuna iniziativa, nessuna provvidenza in favore degli amministrati. E a tanto squallore faceva naturalmente da cornice una popolazione ancora più appiattita e più abulica, china sulle proprie miserie, indifferente alla cosa pubblica, incapace di ve¬dere cosa avveniva nel mondo o nello stesso paese. Il fenomeno (dell’emigrazione) coincise con l’aggravarsi della piaga della delinquenza. Partinico si rese tristemente famosa per i numerosi delitti che giornalmente vi si commettevano e nel centro abitato e nelle campagne circostanti.”
Poi inaspettatamente Salvatore Bonnì conclude che la gente di Partinico è forte e intelligente. E scambiando spesso la causa per l’effetto, tira fuori il conservatorismo- anarchico. Che sarà mai? Solo un innocuo ossimoro.
Ognuno di questi storici, a modo suo, ha ragione per i giudizi espressi, naturalmente dal suo punto di vista o dai suoi interessi economici che non erano naturalmente quelli del popolo, nessuno di loro appartiene al Popolo. Purtroppo il Popolo non ha mai scritto, come si sa, non è stato mai ascoltato, quando ha gridato le sue ragioni.
Il marchese di Villabianca resta sempre un aristocratico, un ricco possidente di terre; il notaro Stefano Marino, acquietati i bollenti spiriti quarantotteschi giovanili si è omologato tra i galantuomini, Daniele Lo Grasso è un vecchio frate carmelitano che per vent’anni ha avuto la sinecura di una biblioteca in una città ricca di analfabeti e insegnava latino; Salvatore Bonnì una volta parla da maestro galantuomo, una volta da figlio del popolo, ma in fondo era un idealista e pensava che “il sistema democratico vigente, ottimo in teoria, si riduce in pratica a strumento di fazioni, di beghe, di colpi bassi che nulla hanno in comune con la pubblica amministrazione e con la politica”.
Riflettendo lungamente su tutti questi giudizi, a loro modo tutti sinceri e, cercando di sommarli almeno in tutte quelle parti che, a nostro modesto parere, potrebbero avere in comune, tenendo ben presente soprattutto le notizie tratte dai documenti dell’Archivio che ora pubblichiamo, ci sembra che almeno su qualche punto fermo si possa essere pacificamente d’accordo: che il popolo di Partinico non è stato mai un popolo tranquillo (coraggio, fierezza, malandrinaggio, ribellione); che ha sempre avuto rapaci amministratori della cosa pubblica, (da cui è stato sempre escluso); che ha tentato di sollevarsi, ribellarsi o vendicarsi nel 1812, nel 1830, nel 1848, nel 1860, nel 1893, nel 1944, per quel che ne sappiamo, oltre i locali tumulti per la tassa sul macinato o il dazio consumo; che queste sommosse non sono state mai vittoriose, anzi hanno peggiorato la sua situa¬zione economica e morale; che il clero locale, da una parte è stato di grande conforto e freno nella miseria, d’altro canto ha sempre partecipato al carisma del potere dei Cappelli; che il Popolo sempre ha sofferto la piaga della miseria, della malaria e della mala amministrazione.
Bastano questi soli punti fermi per tentare, almeno, delle deduzioni, se non delle conclusioni, che vogliono essere solo di spiegazione dei fenomeni, giammai di giustificazione morale. Anzitutto, non si può parlare di popolo abulico e senza iniziative se è vero, ed è vero che, almeno, in tutte le sommosse storiche siciliane anche Partinico ha fatto sentire la sua voce perché voleva migliorare la sua misera condizione. Ogni volta ci ha riprovato, ma una volta dall’Arciprete, una volta dai galantuomini, una volta dalla truppa è stato fermato, umiliato e ricacciato indietro. Finché i più animosi, mai stanchi, prendono la via delle lontane Americhe per ricominciare altrove la lotta per una vita migliore.
Quanto entusiasmo ed eroismo con l’arrivo di Garibaldi se almeno mille partinicesi, fidenti in un avvenire migliore, hanno offerto vita e soldi, coperte e piombo per aiutare i Mille. Che delusione però se i Galantuomini, sempre gli stessi galantuomini borbonici, si sono subito insediati al Municipio e non hanno cambiato nemmeno i vecchi servienti spioni, davanti al portone del Municipio. Non si arrendono però, se poi partono in massa per l’America con l’eterna speranza, ancora una volta, di poter mutare il destino degli sconfitti.
Per tutto un secolo, ed è lungo un secolo fatto di 36.500 lunghe giornate, nonni padri figli sono costretti a sottostare ai capricci di quelle dieci famiglie che, non certo per virtù divina, si palleggiano il potere, ne fanno il regalo di nozze alla figlia, se lo scambiano per gioco o per ripicca tra Bianchi e Neri, anzi tra Neri e Neri.
“Affarismo del Consiglio comunale – dice Bonnì – quasi sempre losco, sporco e perpetrato ai danni della collettività”.
In una situazione sociale così incancrenita, non volete che lo stesso nome di Autorità non susciti malcelato disprezzo? E timore anche. E anche ammirazione e invidia per chi a suo modo, è riuscito a uscire fuori dalla massa. Ecco l’ammirazione, la venerazione per gli Eroi, i Santi, i Briganti. Fateci caso. Contate i quanti eroi, quanti santi, quanti briganti vantino i Partinicesi. Tante sono le scuole e vie intestate agli eroi di guerra, nessuna è intestata a Dante o a Verga, nemmeno a Leonardo Sciascia. Sola eccezione una scuola media intestata ad Archimede.
Il bandito Giuliano e la sua banda sono ancora un vanto di Partinico, mentre Montelepre quasi se ne vergogna. E poi ancor oggi, il monaco scalzo fra Giuseppe, la beata Pina Suriano e Santi Savarino surclassano cento volte lo stesso Padre Pio.
Malandrinaggio, brigantaggio, manutengolismo, delinquenza e mafia infestano tutta la Sicilia. Più o meno ovunque. Ma sono stati particolarmente presenti ed evidenti in questa contrada. Per tutto l’Ottocento non c’è traccia d’iniziative o provvedimenti o provvidenze prese, almeno, per cercare di sapere, se non per cercare il perché di tanta malaria materiale e morale. La miseria economica era un po’ovunque in Sicilia (e in Italia), ma almeno la popolazione non era costretta a vivere nella palude delle strade, a respirare ogni ora quel mefitico veleno e morire e veder morire d’inedia i figli, in una regione ricca di buone terre da coltivare. Un’epidemia arriva e finisce, ma la malaria resta e si respira ogni giorno per l’intera vita di chi riesce a sopravvivere. In una situazione quotidiana così atroce, che valore volete che possa avere la vita, l’amore per il vicino e il paese, la cooperazione e il rispetto per quelle Autorità che pensavano solo ad allargare i loro tenimenti, ad avere più villani affamati nella loro clientela servile? Invece di vedere quali potevano essere i bisogni del paese, che poi erano cosi semplici, il pane e la salute – pensavano soltanto ad aumentare il numero delle guardie armate in difesa della loro roba mal coltivata. Nella vicina Alcamo, città più estesa e popolosa di Partinico, le guardie campestri erano solo otto, a Partinico arrivarono a quaranta, ma tutti i galantuomini non smisero mai di chiedere più guardie, ancora più guardie e più guardie armate ancora per proteggere le loro terre dai bambini affamati.
Qual è il primo provvedimento che prese la prima Amministrazione comunale, quando ebbero l’autonomia da Palermo? L’istituzione di un nuovo Corpo di guardie campestri con gli alamari comunali e il pennacchio rosso. Qual è il primo provvedimento che decidono i Galantuomini nel 1860, quando Garibaldi (e Crispi) gli riconsegnano il potere al Comune? Una tassa sul vino e sull’olio per pagare le guardie in difesa dei campi. Parte dell’introito del dazio consumo, pagato soprattutto dai poveri, serve a risarcire i furti dichiarati dai proprietari, furti di fave o fichi, fatti dai poveretti affamati.
Quasi tutta la principale industria locale, quella del lino, si svolge di contrabbando, sempre con la paura delle guardie perché in tutti e cinque i fiumi l’immersione è vietata, tranne alla foce del Nocella (troppo poco) o contrastata dai malandrini; tutta l’attività per il vino e l’olio è una sempiterna lotta coi caselli del dazio, il pane stesso deve scansare il dazio, per non parlare del sapone. Nel paese non ci sono fognature o discariche, ma in compenso le guardie vigilano per le aie vietate nelle strade. Almeno duemila ammalati permanenti vegetano nei luridi letti e aspettano il pane (qualche medicina, meno che mai). Tutti vivono provvisoriamente, quasi di contrabbando.
Non vogliamo giustificare il furto o il furtarello, che è reato. Però, ci sia consentito di cercare delle possibili spiegazioni, di cercare di capire. Se no si finirebbe per dire che avevano l’uso di rubare e ammazzare come particolare costumanza locale, per hobby. Le leggende, purtroppo, sono dure a morire.
Da dove veniva poi questa costumanza del rubacchiare? Del farsi giustizia da sé? Di fregare il prossimo? L’esempio l’avevano costantemente dato i Galantuomini, gli Amministratori, i Notari, i Possidenti. Gli stessi abati di Altofonte, come quelli locali, vivevano lautamente di primizie, decime, ottine, terragiuoli, carnaggi, questue, imposti per devozione alla Chiesa e digeriti dal clero. Bell’esempio!!.
Il popolo mancava di morale disciplina, nota il notaro Stefano Marino, per cui era non curante di cotanto maleficio (il malandrinaggio). Quale esempio di morale disciplina e di rettitudine davano gli amministratori e il clero per cui il popolo avrebbe dovuto preoccuparsi del malandrinaggio? Non possedeva nulla il popolo. Robin Hood non s’in-contra mai nella storia di Partinico dell’Ottocento, solo briganti e sicari che vegliano nei palazzi dei Possidenti per terrorizzare il gregge dei poveri, con le schioppettate. Davano spudoratamente l’esempio del malaffare arricchendosi sempre di più. Qualcuno nobili-tava le ruberie consolidate facendo il sindaco galantuomo e qualcun altro faceva il sin-daco galantuomo per arricchirsi senza vergogna. Si diceva che era furbo, che ci sapeva fare. In un secolo, non si sa quante volte (almeno una diecina di volte) il Comune è stato chiuso per disinvolta amministrazione, per fallimento, per ruberie troppo palesi. E avevano anche la spudoratezza di mandare il banditore comunale, con rulli di tamburo, ad annunciare alla Città che il Comune era chiuso e non pagava nessuno! Questa era, purtroppo la morale corrente. Stupido chi non rubava, chi non sapeva arrangiarsi, fregare il prossimo.
Un grosso esportatore di agrumi mi raccontava compiaciuto di quella volta che aveva fregato bellamente gli Americani perché aveva spedito un intero carico di cassette con gli agrumi sopra e “pale” di fichidindia sotto. Ovviamente il prospero commercio con gli Americani s’interruppe: ma non era questo che rimpiangeva il nostro amico. Non dimenticò mai che l’aveva fregati bellamente e se ne vantava ancora in giro, come di una memorabile e gloriosa impresa. Li aveva fregati.
Non è che Partinico non abbia il mare, l’ha a pochi chilometri, ma l’abitato è stato costruito in un avvallamento naturale che ne nasconde l’orizzonte. Tutti qui sono nati contadini o vengono dalla terra, non sono marinai avventurosi, ma tendono al mare, a scappare da un centro dominato, allora, dai dotti padri del Carmelo, padroni del tempo col grande orologio, a ovest chiusi dagli impiccati del Piano dei Cappuccini e circondati dagli implacabili guardiani del dazio alla periferia. Il certo è che già dal 1870, come ha notato Carmelo Pardi – i Partinicesi si allontanano dal loro centro abitato e non dentro i confini del loro naturale territorio – come avviene ovunque – prima colonizzando tutto il monte Romitello del Comune di Borgetto, poi fermandosi a (non verso) Terrasini e Balestrate. Come fanno le grandi capitali, Palermo e Catania, e per lo stesso motivo, per non sentire il fiato del potere troppo forte sul collo, un potere vicino e pesante di un’amministrazione tediosa.
Se proprio non derivi solo da questo il carattere chiuso e silenzioso dei Partinicesi, aggravato da una lunga tirannia amministrativa atroce – è certo che un orizzonte chiuso non aiuta ad aprirsi, a sorridere alla vita e al prossimo, a respirare ottimismo e fiducia in se stessi e negli altri tutti. Sono chiusi e diffidenti, non aperti al sorriso fiducioso verso il prossimo. Tutti sono come scottati e timorosi di aprirsi, vorrebbero forse aprirsi, ma sono vigili e attenti, sempre diffidenti. I padri hanno preso tante di quelle fregature e avranno tante volte avvertito i figli di stare attenti al prossimo: tutti sono guardinghi su tutto, sono seriosi ed eroici. Pensano solo a difendersi, non si sa mai! Se però si aprono sono amici deliziosi.
Ogni volta che spontaneamente vi scappa una lieve ironia, una battuta di spirito la più ovvia, vi guarderanno in tralice, prenderanno lentamente le vostre misure dalla testa ai piedi, poi arricceranno con una smorfia il naso, sbufferanno impercettibilmente e vi volteranno le spalle. Temono di compromettersi, sorridendo. Provate a raccontare una semplice storiella, una battuta di spirito, un aneddoto storico grazioso: l’amico vi guarderà negli occhi e poi, ammiccante e complice, vi chiederà che cosa volevate dire in verità. Non è che non la capisca è che non capisce perché l’avete raccontato, insomma cosa volete da lui. Difficile e inutile spiegargli che avete raccontato una barzelletta per il solo piacere di raccontarla, anzitutto per risentirla voi stessi con piacere, per fare un gra-zioso regalo a lui, per regalargli e regalarvi un sorriso, fare di più amicizia. Vi casche-ranno le braccia. Provate, uscendo da casa a sorridere o a salutare qualcuno che incontrate. Si chiederà e chiederà perplesso perché l’avete fatto, che volete da lui e vi guarderà tosto negli occhi, fisso e sfrontato in segno interrogativo di sfida silenziosa. Non accetta il sorriso, diffida.
Dalla Biblioteca comunale, per iniziativa della sig.ra Sara Provenzano, qualche anno fa è partita la singolare iniziativa della gentile bibliotecaria sul Valore di un sorriso. I volantini azzurri che invitavano al sorriso, ad aprirsi fiduciosi verso gli altri, invasero gli uffici comunali e le sale dell’Ospedale. Ma pare che non abbiano avuto molto successo perché si sono fermati lì.
Per lunghi cento anni, almeno per tutto l’Ottocento, forse fino al 1940, ma anche prima con i gaudenti Abati di Altofonte, la popolazione di Partinico è stata soffocata in una palude di fango e malaria, e strizzata inesorabilmente da una tassa sul macinato e un dazio consumo sui generi alimentari che garantiva ai Cappelli un bilancio comunale sicuro da amministrare a loro piacimento, da spendere senza pensiero sino all’ultima lira. Quando i soldi finivano, il Comune non pagava nessuno e chiudeva in attesa di un commissario prefettizio che imbandiva di nuovo la tavola per i Cappelli. Nel 1898 l’introito del dazio sulla farina arrivò addirittura all’82% del bilancio comunale. E superava, di gran lunga, più del doppio, la tassa fondiaria che i possidenti non volevano pagare, tanto che si dovette invocare l’intervento dell’esercito per costringerli. Purtroppo questa è la dolorosa storia di questa popolazione sempre strizzata fino all’ultima goccia e, per giunta, calunniata e disprezzata. E non volete che, con un passato così triste, un po’ di dolore e diffidenza non sia rimasto in fondo al cuore di ogni cittadino sensibile? Cento anni di bile non si digeriscono facilmente in un anno. Stanno faticosamente risalendo al sorriso della simpatia umana, ma ancora un pizzico di diffidenza affiora come difesa naturale verso un prossimo che è stato carogna. La religione e la fede sono state un grandissimo sostegno e conforto, finché hanno potuto predicare pazienza e rassegna-zione, ma quando il peso è diventato insopportabile, il municipio e i casotti del dazio sono stati dati alle fiamme. Fortunatamente per i Signori, il popolo è tornato all’ovile. Quante rivoluzioni mancate, quante speranze deluse! Sempre così! Col sorriso della speranza rotto sempre dalle delusioni.
Ricordo che negli ultimi anni 60, un gruppetto di giovani goliardi, freschi di università – Vincenzo Fedele, Mimi Bacchi, Ignazio Speciale, Agostino La Franca, -tentarono una campagna elettorale a colpi di gioiose pernacchie (pirituna) Dai padri fu loro consigliato di smetterla, perché “su certe cose non si scherza”. Diventarono seriosi e persero le elezioni.
Peppino Impastato svolse la sua eroica vita tra la natia Cinisi e Partinico, attivissimo animatore di movimenti politici giovanili. Con la sua Radio Aut, assieme a Salvo Vitale, sconvolse a forza di pernacchie e sberleffi le stagnanti acque del tran-tran politico locale, proprio quando i mafiosi stavano costruendo a Cinisi un aeroporto più comodo per i loro traffici internazionali di droga. Nessuno aveva mai osato sbeffeggiare la mafia. Era troppo per Tano Seduto e Peppino fu trovato dilaniato da una bomba sulla ferrovia Palermo-Trapani. Quando vi raccontano di Peppino, tutti si fanno subito il dovere di sottolineare che “saltò in aria con una bomba”, come a dirvi che su certe cose, (la mafia, la politica, la chiesa, etc.) non si scherza, non si deve scherzare.
Non si ricorda un giornaletto locale con vignette umoristiche. In mezzo secolo, mai un solo sberleffo alla signora Bertolino, gran padrona della distilleria che ammorba l’aria. La TV locale ogni ora martella proteste e la Signora lancia querele e querele: sembra una gara strapaesana su chi si stanca prima. Succede intanto una cosa buffa: per ingrandire al massimo il potere malefico della distilleria s’ingrandisce a dismisura la sua immaginaria potenza (come avviene spesso anche per la mafia): ogni volta che si nomina la Distilleria si precisa subito che è “la più grande della Sicilia”, poi divenuta la più grande d’Italia e la più grande d’Europa. Manca poco e presto la faranno orgogliosamente diventare la più grande della Terra, a dir poco, così quelli che la combattono possono credersi dei giganti in lotta con l’Universo intero. La Signora, invece di ringraziare per tanta gratuita pubblicità, sembra aizzarli. Forse per far diventare la sua grandezza interplanetaria.
Al Consiglio comunale intanto seriosamente continuano a discutere del sesso degli angeli, a rimestare problemi stantii. Non è capitato mai di sentire uno sberleffo, un gioioso pizzicotto scambiato tra due consiglieri, una sonora risata che scoppia su niente. Sono tutti seriosi e chiusi, educati e cerimoniosi. Non una battuta di spirito, liberatoria e gratuita, una cordiale frecciata all’avversario, un’allusione spiritosa. Tutti sono vigili misurati diffidenti rispettosi seriosi, eroici: sindaco e opposizione, tutti ripetono pappagallescamente che “lo fanno per il bene del paese”, anche quando domandano che ora è. Mai una buona risata franca e aperta, dirompente, imprevista e concreta che spiazzi e rompa l’atmosfera sonnolenta, non uno che esca fuori dalle righe, imprevedibile.
Tutti i paesi vicini per Carnevale hanno le maschere che girano per le strade e molte case sono aperte e si balla. A Partinico non c’è il Carnevale, anzi si può dire che quasi non vi sono feste civili, solo processioni religiose e messe cantate. Qualche anno fa vi fu il tentativo delle scuole medie di introdurre le sfilate carnevalesche con i bambini in maschera, tutti Zorro con la frusta, minacciosi. È durato solo un anno.
Tutti i paesi siciliani abbondano di aneddoti con la battuta finale che rimane come motto, anche se tutti dopo hanno già dimenticato l’aneddoto originale. Francesco Lanza ne ha raccolto un intero volume di Mimi siciliani. Tre sono invece le storielle che a Partinico si raccontano, quella di Padre Stagno, quella di don Piddu e quella di donna Mara, ma la battuta finale è sempre troppo fredda e poco spiritosa, per ricordarle senza il fatto successo. Sentiamole:
A Padre Stagno avevano rubato il carrozzino col bel cavallino e non si poteva dare pace, anche perché gli amici ogni giorno ne rinnovavano scherzosamente il ricordo. Stava quasi per rassegnarsi alla perdita, quando un giorno un devoto va a confessare, proprio a lui, di aver rubato il cavallino dell’arciprete. Scatta fuori dal confessionale gli corre dietro e dalla scalinata della chiesa grida forte: “Ora so chi mi ha rubato il cavallino, ma non posso dirlo!” (perché l’aveva saputo in confessione). Intanto additava il ladro che scappava.
Don Piddu Carogna era il galantuomo capo elettore che teneva le chiavi del cuore – diceva lui – dell’Onorevole Vittorio Emanuele Orlando, quello che disse di essere orgogliosamente mafioso. Una volta, all’Opera dei Pupi di don Gaspare Canino nella sala strapiena, don Piddu si alzò in piedi, stese il braccio teatralmente e sparò sull’infame Gano di Magonza. Perché lui i tradimenti non li sopportava nemmeno a teatro, disse e si sedette.
La terza storia, quella di donna Mara, è più recente: aveva finito le pulizie di Pasqua e, riversò sulla strada, dal balcone, l’acqua con cui aveva lavato la casa. In quell’istante stava passando una guardia urbana con la divisa nuova e lo prese preciso. La Guardia restò interdetta ma donna Mara, prima che lui aprisse bocca, gli gridò incazzatissima: “Lei proprio ora doveva passare!?”. Non sappiamo se la Guardia comprese appieno se la battuta era di spirito o di rimprovero (o se era di quelle battute liberatorie che, a detta di Cicerone, trovano i Siciliani, per salvarsi destramente in una situazione tragica: “Numquam est tam male Siculis, quin aliquid facete et commode dicant”. Niente può capitare di tanto terribile a un Siciliano che non dica qualcosa di liberatorio). L’episodio poteva finire così, dopo essere stato raccontato agli amici come storiella curiosa con la botta finale. Invece non fu così perché tutta la città si divise in due partiti, l’un contro l’altro armato, partigiani focosi per le ragioni dell’uno o dell’altra. Si aprirono tribunali nei caffè e nelle sartorie. Aveva fatto bene la Signora Mara a buttare per strada l’acqua sporca (tutte erano solite farlo), o era solo colpevole di non aver guardato prima? La Guardia doveva passare per la strada proprio in quel momento? Per farsi bagnare? O poteva passare per un’altra strada e non farsi bagnare? Per qualche mese non si parlò seriamente d’altro e ognuno aveva la sua opinione.
Sempre quel sorriso di sughero, timido, rispettoso, ossequiente, sospettoso, ma acuto. Ognuno recita doverosamente la parte che gli tocca fare, la parte che tutti si aspettano che lui reciti bene e basta, grazie. ¬Mai, mai una parolina canzonatoria e scorticante, imprevista, una pernacchia per la strada. Il re potrebbe andare nudo tutto l’anno a Partinico e potrebbe stare sicuro che mai nessuno griderà che è nudo! Tutti saranno rispettosi, si faranno gli affari loro, attenti a non scalfire l’autorità di un re, ancorché nudo.
Lo scetticismo è creduto offensivo, l’indifferenza e la cortese incredulità non sono ritenute virtù, la diffidenza e il dubbio verso tutti i fanatismi non sono ritenute le chiavi di una conoscenza civile e democratica verso tutto e tutti, non sono fiduciosi verso le buone possibilità della vita. Viene da ciò questo ipertrofico amore esclusivo verso la Chiesa, verso la Mamma, l’Italia e anche verso l’Opera dei Pupi? Mi è capitato spesso di sentir dire che “i Partinicesi sono tabutara!” Letteralmente l’epitteto vorrebbe dire che amano i funerali pomposi, che amano andare silenziosi dietro le casse da morto (tabbuto) o le affollate processioni o le adunate politiche dove ci si intruppa tutti, forse per non sentirsi soli, ma garantiti e protetti. A parte i funerali, ancor oggi, assai frequentati, si ricordano sempre le oceaniche parlate e il fanatismo, durato oltre mezzo secolo, per l’onorevole Vittorio Emanuele Orlando.
N.B. Tutte queste affettuose considerazioni sono scaturite da cinquanta anni di frequentazioni che mi hanno aiutato assai a leggere e comprendere meglio le carte vecchie dell’Archivio comunale e viceversa. Le carte storiche dell’Archivio sono state di grande aiuto per poter meglio comprendere il carattere degli amici Partinicesi. Almeno per quel poco che ho potuto capire.
Ovviamente queste considerazioni sulla psicologia dei Partinicesi possono valere, più o meno, meno o più, o grosso modo, per il carattere dei Siciliani in generale, lo so bene. Qui però si può notare come certe caratteristiche, magari tendenze latenti altrove, siano più accentuate ed evidenti
“ Partinico, per la sua storia, per la sua gente forte e intelligente, per la fertilità del suolo e per la posizione dominante che occupa nell’amenissima Piana, la nostra Partinico ha tutti i titoli per meritare il rango di una vera città bella e moderna, ordinata e prospera, industriosa e felice, attiva e socievole e protesa verso un avvenire ancora migliore”.
Accettiamo per l’avvenire quest’ottimistico augurio di Salvatore Bonnì. Solo per l’avvenire perché per il passato restano molti dubbi, ma la volontà dell’ottimismo può fare miracoli, sta facendo miracoli in questi ultimi decenni con amministrazioni più largamente democratiche e partecipative e, soprattutto, con le nuove generazioni che cercano di riscattarsi volenterosamente da naturali carenze e antichi servaggi.
Abbiamo deciso da tempo da che parte stare. Non ci servono le sentenze per appurare…
Ci provo, in un prato senza vegetazione, a piantare qualche albero di parole, di sogni…
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