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Antonio Ingroia: “La corruzione va combattuta come la mafia”

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Un medico che diagnostica una grave malattia ma poi non prescrive la cura adeguata, rimandando la terapia necessaria a data da destinarsi, sebbene i sintomi del male siano evidenti e le analisi non diano adito a dubbi, o è un incapace o è un irresponsabile o è in malafede.

In ogni caso è un pessimo medico, che rischia di far morire il suo malato. Matteo Renzi è come quel medico: ha in cura il malato Italia affetto da una corruzione cronica, che si è drasticamente aggravata negli ultimi venticinque anni e che periodicamente si manifesta in tutta la sua virulenza (da Tangentopoli fino a Mafia Capitale, passando per gli scandali rimborsi, Expo, Mose ecc) ma, nonostante il codice rosso, il dottor Renzi si ostina a intervenire con inutili pannicelli caldi invece di aggredire la malattia con una terapia d’urto efficace.

La metafora rende bene l’idea di come stanno le cose nel Bengodi della corruzione, dove corrotti e corruttori sanno bene che seppure vengono sorpresi con le mani nel sacco finiscono comunque col cavarsela con poco, dopodiché stanno al più fermi un giro ma poi possono rientrare in gioco come se nulla mai fosse successo. In questo senso Mafia Capitale è emblematica, con la sua cupola di condannati uscita di galera per entrare direttamente nei palazzi del potere, a elargire mazzette in cambio di appalti grazie a una classe politica immorale, che non si è fatta scrupoli quando si è trattato di stringere patti con il potere mafioso-criminale. Nulla di nuovo, a dire il vero, per chi, come me e come pochi altri, aveva denunciato già anni fa, rimanendo tuttavia inascoltato, che la mafia si stava divorando l’Italia, risalendo dalla Sicilia per arrivare al cuore politico ed economico del Paese. Era l’inevitabile conseguenza del cedimento, nella stagione delle stragi, di una classe dirigente che, sentendosi minacciata, scelse di trattare e fare patti con Cosa nostra, riconoscendone e legittimandone il potere, anziché sostenere la linea dell’intransigenza per la quale uomini come Falcone e Borsellino avevano dato la vita. L’intreccio, sempre più perverso, tra politica e criminalità è figlio di quella scelta.
Ma torniamo a oggi e a Renzi. Dopo l’ultimo gigantesco scandalo tangenti – quello del mondo di mezzo di Carminati e Buzzi, immancabilmente venuto fuori grazie alla magistratura visto che la politica per lo più non vede, non sente e non parla – il presidente del Consiglio si è presentato in video assicurando con la consueta teatralità pene più severe e linea dura contro i corrotti. Lo aveva fatto già in passato, restando però sempre ancorato agli annunci per cui è ormai tristemente noto, senza mai passare ai fatti, al punto da diluire nei tempi e nei contenuti quella riforma della Giustizia di cui c’è assoluto bisogno. Stavolta il Consiglio dei ministri qualche impegno l’ha preso, misure comunque insufficienti e inefficaci, come hanno sottolineato anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, l’Anm, Don Ciotti. Insomma, il minimo sindacale e per di più senza fretta, dal momento che nemmeno Mafia Capitale, con il suo sistema marcio fatto di connivenza tra politica, affari e potere criminale, è bastata perché si procedesse per decreto legge. La necessità e l’urgenza sono talmente evidenti da non poter essere messi in discussione e invece il governo ha scelto la strada del disegno di legge, con i tempi inevitabilmente lunghi che questo comporta e con il fondato dubbio che nel passaggio parlamentare le misure annunciate oggi saranno sacrificate domani sull’altare delle larghe intese o del patto del Nazareno oppure finiranno sul solito binario morto. Insomma, il decisionista Renzi, sempre pronto a lanciarsi a colpi di fiducia nell’opera di smantellamento della Costituzione e nella crociata contro i lavoratori, esita invece quando si tratta di aggredire la corruzione e il malaffare. E invece è questa, oggi, la madre di tutte le battaglie, perché l’eliminazione della mafia e della corruzione non è solo un obiettivo e un impegno per la legalità e la civiltà del paese, ma è la precondizione per il suo rilancio economico. Bisogna liberare l’economia e lo sviluppo dalla criminalità organizzata, colpendola sia nelle strutture finanziarie che nell’intreccio con gli altri poteri, a partire da quello politico. Per farlo servono riforme radicali, non interventi minimali, figli di compromessi. Servono gli stessi strumenti messi in campo contro la mafia.
Io chiedo da tempo di estendere ai corrotti e ai grandi evasori fiscali la normativa che si applica ai mafiosi attraverso l’istituzione di un Alto Commissariato per l’acquisizione dei beni di provenienza criminale che dia la caccia ai patrimoni illeciti di mafie e corruzione. Appena emergono indizi di corruzione, avviare accertamenti sui patrimoni e, in caso di sproporzione tra il loro valore e il reddito dichiarato, se entro sei mesi non si dimostra la provenienza lecita delle ricchezze, fare scattare la confisca e la destinazione di quelle ricchezze a finalità di interesse pubblico e sociale. Il disegno di legge c’è già, l’abbiamo scritta insieme a Franco La Torre, figlio di Pio, padre della legge del sequestro e della confisca dei beni dei mafiosi. Basterebbe adottarla integrandola con incentivi per chi collabora, con una radicale riforma del processo penale, con la reintroduzione del delitto di falso in bilancio, con l’introduzione di una seria incriminazione dell’autoriciclaggio, intervenendo sulla prescrizione in modo che sia interrotta per sempre non appena inizia il processo, cioè nel momento in cui lo Stato dimostra di voler perseguire i colpevoli, vanificando così ogni speranza di farla franca con escamotage ed espedienti dilatori. Questo significa davvero non dare tregua a corrotti e corruttori, non il tweet o il video di circostanza buono solo per avere l’apertura dei tg e i titoli sui giornali. Cambiare pagina si può, il problema è che evidentemente non si vuole.

Antonio Ingroia (www.lultimaribattuta.it)

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