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Ambrogio Cartosio, nuovo Capo della Procura di Termini Imerese, detta le regole di comportamento ai suoi giudici

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«Colleghi pm, basta carriere costruite sulle infamie in TV». Ha detto Cartosio

Dopo avere ricoperto presso la procura di Trapani il ruolo di Procuratore aggiunto, e, per qualche tempo il ruolo di Procuratore capo facente funzione, e soprattutto dopo essersi trovato tra le mani la patata bollente della nave tedesca o.n.g. Iuventa, il giudice Ambrogio Cartosio è stato nominato procuratore capo della Procura di Termini Imerese, alternandosi in ciò con Alfredo Morvillo, fratello della moglie di Falcone, che da Termini è stato destinato a dirigere la Procura di Trapani. All’atto del suo insediamento Cartosio, nel suo discorso ha subito indicato e chiarito alcuni punti che dovrebbero essere la linea guida dell’operato dei giudici, sia nei confronti dell’imputato, sia nei confronti dei giornalisti, che troppo facilmente gettano in pasto all’opinione pubblica precostituite condanne, spesso pilotate dalla linea d’indagine seguita dal magistrato, per rafforzarla, scordandosi l’indispensabile originaria presunzione di colpevolezza o d’innocenza alla quale ha diritto l’imputato prima di essere processato: «Colleghi pm, basta carriere costruite sulle infamie in Tv, ha detto Cartosio, aggiungendo che «i pm non possono costruire brillanti carriere sulle infamie gettate addosso a chi è solo indagato». Secondo il giudice «alcune inchieste finiscono con l’essere un’arma distruttiva dell’esistenza altrui». Tutto questo non vuol dire che non debba esserci alcun rapporto con i mezzi d’informazione, ma deve essere portato avanti un rapporto trasparente con la comunità, organi di informazione compresi, senza ricorrere a indagini basate sul clamore, sulla ricerca dell’indagato eccellente. In pratica il Capo della procura di Termini indica una sorta di via di mezzo in cui la riservatezza del magistrato s’incontri con quello che viene chiamato “diritto all’informazione”, “nel massimo rispetto per le persone che vengono arrestate, e che però sono la Procura e la polizia giudiziaria a indicare unilateralmente come autori di un reato. Saranno poi i giudici a stabilire se il soggetto è veramente colpevole». E proprio sull’operato dei giudici Cartosio aggiunge che «possono far fare carriere brillanti, ma a volte si tratta di carriere costruite su un’infamia gettata addosso a persone che poi nel tempo si rivelano diverse da com’erano state dipinte». E pertanto ai 9 magistrati della Procura Cartosio chiarisce che: «Questo ufficio darà le informazioni necessarie, ma non saranno ammessi protagonismi, non sarà ammesso, soprattutto, che la reputazione delle persone venga infangata facilmente… quello del clamore mediatico sulle indagini «è un tema enorme, gigantesco, perché il proliferare di trasmissioni e dibattiti sulla presunta colpevolezza di questo o quel soggetto è diventata una vera e propria malattia sociale».

Ai suoi colleghi, Cartosio ha fatto presente di essere stato «un allievo di Paolo Borsellino: ero con lui alla Dda e credo sia evidente che con Giovanni Falcone è stato lui a far diventare la lotta alla mafia una cosa seria: prima i capi degli uffici ti dissuadevano, sostanzialmente ti dicevano che era meglio dedicarsi ad altro ‘tanto la mafia non esiste’…».

L’ultima nota è fatta nei confronti del rapporto tra il pm e l’avvocato: «Se il lavoro del pm ha una dignità, ce l’ha perché esiste l’avvocato. Che è lì a farti le pulci, a cercare di farti venire dei dubbi, che ti scuote dalle tue certezze. E tu, pm, devi essere capace di rivederle. Non è che ti abbarbichi a una convinzione sbagliata solo perché la tua controparte ti ha messo in condizione di riconoscerla come tale… È l’errore peggiore che si possa fare da parte di un pubblico ministero».

Il discorso del Procuratore Cartosio è molto equilibrato e cerca di trasmettere questa sensazione di equilibrio all’operato dei giudici, chiedendo loro di esibirsi un po’ meno, di non trovare individui eccellenti da mandare sotto indagine, tanto per farsi un nome, di evitare processi che anticipano il processo reale. Un’indicazione difficile in un’Italia in cui è invalsa la cattiva abitudine di ritenere colpevole chi riceve un avviso di garanzia, come se si trattasse non di una garanzia di tutela dei diritti dell’indagato, ma di una garanzia di colpevolezza.

Inevitabilmente non si può non fare riferimento, dopo queste osservazioni al caso di Pino Maniaci e all’operazione costruita su di lui a tavolino per dimostrare che “non abbiamo bisogno della sua antimafia”, come disse il giudice Teresi, e che la campagna antimafia condotta da Telejato contro il giudice Saguto e contro i suoi complici, a cominciare da Cappellano Seminara, era una campagna velleitaria rispetto alla vera campagna antimafia condotta dai magistrati stessi. Un discorso, quello di Cartosio, che riflette specularmente un’inchiesta costruita a tavolino dai suoi colleghi, con una pre-indicazione dell’imputato, sul cui capo costruire, pezzo dopo pezzo una serie di episodi spacciati per prove volte non tanto a documentare la colpevolezza, ma a demolire l’immagine. Dopo di ciò non sappiamo se l’operato del tribunale che sta giudicando Maniaci, nel momento in cui è stato rifiutato l’accesso ai mezzi d’informazione, sia dovuto a un improvviso pudore, del tipo di quello suggerito da Cartosio, dopo il boom mediatico della prima conferenza stampa, o se ci sia voglia di coprire per quanto possibile e non far conoscere al grosso pubblico il modo in cui è stato “montato” questo processo.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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