Quando ho ricevuto la notizia della morte di Antonella tramite un messaggio da parte del figlio Gabriele, non riuscivo a crederci. L’ho conosciuta una ventina di anni fa a Cinisi, nel corso di un anniversario per la morte di Peppino, assieme all’inseparabile marito, anche lui scomparso da pochissimo. Antonella non se l’è sentita di lasciarlo andar via da solo. La sua è una storia per molti aspetti simile a quella di tante donne siciliane, alle quali la violenza mafiosa ha lasciato segni indelebili. Aveva quattro anni  quando il 21 dicembre 1946 fu ucciso suo padre Nicola Azoti, a 37 anni, segretario della Camera del lavoro di Baucina, impegnato nel rispetto dei diritti dei contadini, particolarmente nell’applicazione della legge sulla divisione dei prodotti agricoli che prevedeva il 60% al contadino e il 40% al proprietario. Malgrado Azoti, morto dopo due giorni di agonia, avesse avuto il tempo di dire alla moglie il nome del suo assassino e dei gabelloti che lo avevano minacciato , non venne mai celebrato un processo e l’inchiesta sulla sua morte fu frettolosamente archiviata. Eseguendo le disposizioni date da Pio XII, il parroco si era rifiutato di fare entrare la bara in chiesa per la messa, trattandosi di uomo ammazzato e per di più comunista. Da allora era scattato nei confronti della famiglia una sorta di ostracismo. Antonella sapeva che doveva nascondere qualcosa, nascondersi da qualcosa, ma non sapeva da cosa. Erano stati  anni di silenzi, quasi che appartenere a una famiglia in cui un componente fosse stato ucciso dalla mafia  fosse qualcosa da nascondere, di cui vergognarsi.

Una vita di miseria, al limite della sopravvivenza, di sacrifici e impegno con il quale Antonella era riuscita a diplomarsi maestra. Nel giugno del 1992, sotto l’albero Falcone improvvisamente scattò in lei una molla: si rese conto che bisognava uscire dal limbo del silenzio e che la storia di suo padre aveva la stessa dignità di tante vittime  uccise dalla mafia, delle quali si celebrava il ricordo. E da allora la sua scelta è stata quella dell’impegno e della testimonianza nelle scuole, nei cortei, nei luoghi della memoria: una presenza costante accompagnata anche dalla pubblicazione di un libro “Ad alta voce”, nel quale è raccontata questa “storia sommersa”. Con la sua dolcezza, il suo mite sorriso, amava spesso raccontare il lontano ricordo di quel giorno in cui venne ucciso il padre e nel quale “aveva smesso di essere bambina”, allorché aveva scoperto che sua madre, di nascosto, le stava cucendo un cappottino rosso, quale regalo-sorpresa di Natale. Un cappottino che mai potè indossare, dovendosi vestire a lutto per molti anni. Ciao, Antonella, sei andata via troppo presto.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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