In questi giorni, da parte del Consorzio che si occupa della distribuzione dell’acqua irrigua nel comprensorio partinicese, ci si preoccupa di promettere immediati interventi non appena saranno fatte le opportune riparazioni, ma sarebbe più opportuno e più corretto spiegare ai coltivatori che acqua ce n’è poca, che servirà a Palermo, perché non si può assetare una città di un milione di persone, che non sono state pagate all’Enel le bollette della luce consumata nell’anno passato, che nessuno, anzi pochissimi sottoscrivono contratti o richieste d’irrigazione, in attesa che l’acqua arrivi e se ne possa usufruire “a sbafo”, che da due mesi il personale in servizio, parliamo solo di quello di Partinico, non riceve gli stipendi, che i finanziamenti per riparare la rete sono promessi e non arrivano o arrivano e scompaiono, che la rete di distribuzione è ormai ridotta a un colabrodo ingestibile, che ancora ci sono le vecchie tubazioni d’amianto, che sono state sostituite solo poche giarrotte, qualcuna delle quali è già guasta, che molte altre sono chiuse o inagibili. Insomma, quello che era il sogno di Danilo Dolci, di Turiddu Termini, di Cola Geraci, di sindaci e sindacalisti una volta tanto insieme, ovvero di arrivare a una distribuzione razionale dell’acqua, gestita dagli stessi contadini, per assicurare al territorio della valle dello Jato un futuro di ricchezza e di lavoro realizzato sull’economia agricola e sulla produzione agroalimentare, sembra essere miseramente fallito un po’ per le mutate condizioni atmosferiche degli ultimi anni, in gran parte per la cattiva gestione nella distribuzione delle acqua, in parte anche per la spietata concorrenza dei prodotti agricoli di nazioni che riescono a produrre robaccia d’ammasso a due soldi, grazie allo sfruttamento bestiale della manodopera. E quindi, al momento ci sono poche speranze. Sono stati stanziati alcuni fondi per il finanziamento di progetti che dovrebbero promuovere o incoraggiare l’imprenditorialità giovanile nell’agricoltura, ma si dovrà fare il progetto, presentare la domanda, aspettare la graduatoria e sperare di essere scelti. Il tutto in attesa di soldi che bisognerà anticipare, in attesa di riscuotere il finanziamento chissà quando, o che dovranno coprire una parte delle spese del progetto.
Naturalmente tutto è studiato per favorire e finanziare le grosse aziende, le quali possono contare sulla quantità per coprire, se non del tutto, almeno in parte, le spese di gestione, di personale, di commercializzazione del prodotto, di sementi, concimazioni e disinfestazioni, irrigazioni, raccolta, acquisto dei mezzi di lavoro, costo dei carburanti ecc. Eppure sui telegiornali nazionali e regionali si identifica qualche esperienza attiva per parlare di un ritorno dei giovani alla terra.
In realtà, prima di affrontare amare delusioni, bisognerebbe mettere al palo e licenziare tutti quelli che si occupano di economie agricole non capendone un tubo, dagli assessori, ai ministri, ai funzionari nazionali, regionali e provinciali, poi bisognerebbe, passando al settore delle acque irrigue, identificare coloro che siedono davanti all’aria condizionata senza preoccuparsi di gestire i bisogni del territorio che è loro affidato, e destinarli a lavorare le terre incolte, per provare come si fa e che cosa è necessario, e infine fare gestire tutto il settore da gente competente da premiare o penalizzare in base ai risultati raggiunti. Per non parlare di uffici, patronati, pratiche burocratiche, fatture, dichiarazioni dei redditi, IVA, autorizzazioni e corsi per l’uso dei fitofarmaci, corsi per la sicurezza, dotazioni di sicurezza sul lavoro e altre adempienze che rendono ormai fuori dal tempo il modello del “coltivatore diretto”, tanto diffuso nel secolo scorso, dal momento che la manodopera e la sua gestione non possono essere portate avanti correttamente dalla stessa persona, data la diversità delle competenze e dei tempi da impiegare in ogni settore.
Conclusione: è vero, la terra è una ricchezza, la terra è un lavoro ed è un posto di lavoro: senza i prodotti della terra l’umanità scomparirebbe. Ma è anche vero che lavorare la terra è un mestiere durissimo, che si è esposti ai capricci del tempo, con il rischio di perdere il raccolto per possibili avverse condizioni climatiche. Tutto questo sarebbe superabile se ci fosse la presenza e l’attenzione dello stato nel settore delle politiche agricole: per contro questo è un settore che sta scomparendo dall’economia nazionale ove si eccettuino i punti ancora resistenti della viticultura e dell’olivo . La popolazione agricola che, al momento dell’unità d’Italia impiegava il 90% degli occupati è ridotta all’8-10% e tutti fuggono dalle campagne, dove ormai si allarga a macchia d’olio la desertificazione e l’abbandono. Difficile frenare l’esodo dalla terra, dove è sempre più diffuso l’invecchiamento di coloro che se ne occupano, come più difficile è frenare l’esodo dei giovani che partono per cercare lavoro all’estero. E la terra resta a guardare. E noi restiamo a guardarla.
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