Oggi vi racconto le storie di due uomini, Abdel Azzine, per tutti Roberto, e di Pedro (alias Pietro Rosselli). Due cold case che sono stati archiviati dopo indagini girate a vuoto su moventi personali o passionali, o addirittura, maldestramente, politici e razziali. E senza che venisse data credibilità all’ipotesi che porta al racket delle estorsioni. Quello che vedete nella foto di copertina era Roberto. Era un ristoratore tunisino, arrivato a Palermo con il sogno di far conoscere per la prima volta in Sicilia le squisitezze magrebine e il couscous nella variante tunisina. Anche Pedro aveva un ristorante, “Il Ficodindia”, in via Emerico Amari, nel cuore di Palermo e a cinquanta metri da “Al Duar”, il locale di Roberto.
I loro sono due delitti gemelli in tanti particolari. Era la sera del 12 giugno del 1990, l’estate delle “notti magiche” di Totò Schillaci. Al “Ficodindia”, una dozzina di persone stavano consumando la loro cena a base di involtini di carne e caponata. Pedro era seduto, controllava come sempre che tutto andasse bene, che il servizio fosse rapido e inappuntabile. Era un uomo tradizionale, molto legato alle due figlie femmine e ai due maschi. Da lì a poco, a dicembre, proprio una delle due ragazze si sarebbe sposata. Ma era anche un uomo d’affari, innamorato della sua terra, tanto che aveva deciso di investire tre miliardi e duecento milioni di lire per acquistare la pensione Azzurra di Mondello e farla diventare un albergo moderno e attraente. Un progetto fermato con quattro colpi di pistola proprio quella sera del 12 giugno: un killer con il passamontagna fece irruzione dentro “il Ficodindia” e aprì il fuoco in mezzo a camerieri e clienti, per poi fuggire a bordo di uno scooter lungo via Emerico Amari e sparire fra le stradine del Borgo Vecchio. Pedro venne ucciso con una Colt 45 semiautomatica, una pistola in uso nell’esercito americano, un particolare curioso ma che tuttavia non servì ad indirizzare le indagini, che esclusero subito anche la pista della mafia o del racket delle estorsioni, sfociando di fatto in un nulla assoluto: nessuna ipotesi concreta né su movente né su possibili mandanti.
Pochi mesi più tardi, la mattina del 14 aprile del 1991, fu la volta di Roberto: stava andando a controllare con la sua consueta puntualità la preparazione della semola. Prese l’ascensore dal quinto piano del suo palazzo e, arrivato nell’androne, venne assassinato a colpi di pistola, stavolta una calibro 38. Su quattro colpi sono due andarono a segno, colpendo il giovane proprietario di “Al Duar” alla testa.
Aveva trentanove anni ed era un uomo attivissimo, sull’onda di un successo crescente: aveva avviato una serie di attività in Tunisia, poi il primo ristorante arabo in Sicilia e da lì a poco avrebbe investito anche a Cefalù, dove voleva aprire un centro agrituristico con ristorante. Anche in questo caso le indagini non registrarono passi significativi in nessuna direzione. Dapprima si indagò sul fronte “politico”, a causa del ritrovamento di un volantino, all’interno di una cabina telefonica, nel quale l’omicidio veniva rivendicato da un fantomatico gruppo chiamato “Disoccupati italiani nazionalisti”, una sigla mai comparsa prima ma gli investigatori non si lasciarono convincere né da quella rivendicazione né dalla pista razzista, puntando piuttosto sull’ipotesi di una vendetta privata, escludendo anche in questo caso la pista della mafia o del pizzo. Fu la dinamica improvvisata, quattro colpi di pistola esplosi a distanza ravvicinata a spingere soprattutto gli inquirenti sulla pista personale: troppo impreciso quel killer, dissero, evidentemente non era un professionista.
Sono passati oltre trent’anni da quei due omicidi e su entrambi è rimasto un velo. Nessuna certezza, niente di niente. Chi voleva male a Pedro? Chi voleva male a Roberto? I due, a quanto pare, si conoscevano e qualche volta – come ha raccontato il figlio di Roberto, Paride, a Repubblica – si erano incontrati nella villa di Pedro ai Colli: di cosa abbiano parlato non si sa. Non avevano affari in comune ma operavano sullo stesso territorio e nello stesso settore. Può darsi che avessero preoccupazioni comuni: ma su questo, oggi, si possono fare solo ipotesi, come giustamente scrivono Gian Mauro Costa e Roberto Leone su Repubblica, tra i pochi ad essersi occupati di questi due cold case, di queste due storie siciliane ad oggi completamente dimenticate da tutti, soprattutto dalle amministrazioni comunali che si sono succedute in questi anni a Palermo: a nessun sindaco, a nessun assessore, a nessun consigliere e chi più ne ha più ne metta, è mai venuto in mente di ricordare questi due uomini, questi due imprenditori, che in questa città hanno trovato, nell’apice del loro successo, la morte. Crudele, spietata, impunita.
Da Telejato non li dimentichiamo e siamo pronti a farci portavoce per iniziative in loro memoria.
Fonte: Repubblica – Palermo
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