9 maggio 1978: l’inizio del depistaggio
Dal libro “Cento passi ancora”
Le sette del mattino. Notte insonne alla ricerca di Peppino. Eravamo scesi dalla radio, eravamo saliti assieme sulla sua scassatissima 850, mi aveva lasciato poco giù, dove abitavo, “ciao, ci vediamo alle 9”, poi più nulla se non la scia di una macchina nera che aveva girato la traversa dopo Peppino. Torno a casa in mattinata e aspetto qualche notizia. Puntuale la notizia arriva. Suonano il campanello: dalle sbarre della persiana li vedo, Agostino, Vito, con la sua cinquecento scassata, in motorino arriva Fanny sconvolta. Il tempo di aprire ed Agostino, gelido:
-“Ammazzaru a Pippinu”.
E’ il pugnale che entra tra le costole e arriva dritto al cuore. Ma non c’è tempo di sentire il dolore. Indosso in tutta fretta camicia, pantaloni, ho il tempo di dire a Silvana “pensa ai bambini”, esco con le ciabatte:
– “Alla radio, senza perder tempo”.
La radio è a cento metri da casa mia. Cominciamo a raccogliere tutto quello che c’è da portar via, la carpetta con i notiziari, le cassette con “Onda Pazza”, alcune registrazioni di Radio “Onda Rossa”, qualche libro dal titolo pericoloso che potrebbe stimolare la fervida immaginazione degli inquirenti. Prendo con me le cassette, Fanny porta via il resto per nasconderlo a casa di sua madre, poi andiamo sul posto del delitto. Una stradina molto stretta, delimitata da due muretti in pietra rotta, in contrada Feudo Siino-Orsa, una traversa della strada che costeggia il reticolato dell’aeroporto. Peppino, che guidava da cani e non aveva la patente, non avrebbe mai potuto entrare in quella stradina senza urtare con la macchina in qualche parte dei due muri. Una sorta di cordone protettivo di carabinieri, con i loro mezzi, ci impedisce di andare avanti. C’è un gran da fare dappertutto. Stanno ricostruendo il binario, divelto per circa mezzo metro e ricoprendo una buca sotto la massicciata. Sui fili della luce, tirati tra un palo e l’altro, si notano brandelli di carne penzolanti: qualche gazza va a beccarli. Il maresciallo di Cinisi si avvicina e ci dice di presentarci in caserma. Arriva Liborio, il necroforo comunale e gli stiamo tutti attorno. E’ sconvolto:
-“Picciotti, chiddu chi vittiru l’occhi miei non vi lupozzucuntari. Era tuttupizzuddicchia. Un pezzu di testa, tri ghirita, l’occhiali, i sannali. A nabannaattruvaina coscia sana. ” (Ragazzi, quello che hanno visto i miei occhi non ve lo posso raccontare: era tutto pezzettini. Un pezzo di testa, tre dita, gli occhiali, i sandali. In un posto ho trovato una coscia intera).
-“Ti abbiamo visto abbassarti verso la macchina e raccogliere qualcosa”
-“Erano tri chiavi sparse sul terreno. Poi u maresciallu mi disse: -“Bisogna trovare un’altra chiave, cerca lì. Pareva chi u sapeva. E circannu in mezzu a li pietri e vicino a una zabara truvai una chiave Yale. Truvai puru, vicinu a la stalla, una pietra, un cuculuni,(ciottolo),lordu di sangu”.
Inutile stare lì a guardare senza poter fare niente. Mi faccio riaccompagnare a casa. Mentre scendo dalla macchina vedo una camionetta dei carabinieri fermarsi davanti a Radio Aut. Abito a un centinaio di metri.Mi avvicino. Sono in due. Stanno armeggiando con una chiave Yale intorno alla serratura.
– “Chi vi ha dato quella chiave?” chiedo a uno dei due.
-“Scusi, lei chi è”
-“Sono un redattore della radio”
-“La chiave è quella dell’Impastato”.
Subito faccio una riflessione: Peppino teneva questa chiave assieme ad altre e in essa non c’era alcun segno di riconoscimento: come potevano i carabinieri sapere che quella che avevano in mano era la chiave della radio? Passa di là, per caso, Vincenzo Puleo, uno del PCI che, qualche anno prima, frequentava il circolo Musica e Cultura. Si ferma e si rivolge ai carabinieri:
-“Con quale permesso state entrando? Avete un mandato di perquisizione?”
Quelli bofonchiano: -“Eseguiamo gli ordini. Lei chi è? Mi mostri i documenti”.
Salgono la scala, buttano per aria le carte rimaste, salgono in terrazzo e scendono trionfanti con una matassa di filo grigio:
-“È uguale a quello che pendeva dai fili della batteria della macchina” sussurra uno all’altro. Trovata la prova se ne vanno soddisfatti……..
Intanto proseguono le indagini. Quattro camionette si presentano davanti alla casa di Peppino: senza troppe cerimonie e senza alcuna delicatezza allontanano con uno spintone Felicia, la madre di Peppino che, frastornata, chiede di sapere cosa sta succedendo: iniziano un’accurata perquisizione, portando via cinque sacchi di materiale, soprattutto libri. Qualcuno ritiene pericolosissimo il libro di Erich Fromm “Anatomia della distruttività umana”, qualche altro sequestra “Stato e rivoluzione”, di Lenin e un altro libro che circolava quasi di nascosto, “In caso di golpe”, edito da Savelli, dove sono minuziosamente spiegate ed illustrate tutte le tecniche di difesa e di offesa, compresa la preparazione di una bottiglia molotov. Perquisizioni nelle case di sei compagni, con il magro bottino di un coltello da cucina, sequestrato a Vito e, a casa di Giampiero, del numero di Panorama, quella settimana in edicola, con la stella delle Brigate Rosse in copertina. Perquisizione anche nella casa della zia di Peppino, dove egli dormiva e dove, un ausiliario di fresca assunzione, tal Carmelo Canale, che in seguito sarà accusato di concorso in associazione mafiosa, in forza alla caserma di Partinico, trova, frugando in un cassetto, una lettera che dà all’indagine una svolta diversa e, per alcuni aspetti complementare con la pista dell’attentato: suicidio.
Incominciano gli estenuanti interrogatori alla caserma di Cinisi. Giovanni Impastato è tenuto sotto torchio per circa sei ore: vogliono sapere se c’erano contrasti al nostro interno, chi frequentava Peppino e, soprattutto vogliono una spiegazione su alcune foto di via Fani, da lui scattate, su richiesta di Peppino, in un recente viaggio a Roma, rinvenute durante la perquisizione: reperti che autorizzano gli inquirenti a ipotizzare fantastiche collusioni col il rapimento di Moro. Non manca qualche attrito con il maggiore dei carabinieri di Palermo Subranni, il quale è ossessionato dall’idea di trovare una bella cellula terroristica in Sicilia, ovvero in una terra dove il terrorismo politico non è mai attecchito, perché il traffico delle armi e il controllo del territorio sono rigidamente sotto la tutela della mafia. All’ipotesi dell’attentato sembra credere poco anche il capitano Emanuele Basile, della compagnia di Monreale, che entra solo di passaggio nell’indagine e che, qualche anno dopo sarà assassinato dalla mafia.
(dal libro di Salvo Vitale “Cento passi ancora” edizioni Rubbettino 2014)