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23 novembre, pagina di diario

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Il diario del giorno

Da qualche giorno non si parla d’altro che del rapimento di Silvia Romano, la ragazza di 23 anni che ha scelto di vivere nel sud del Kenya per dare un suo contributo ai bambini di uno sperduto villaggio privi di tutto. È già successo altre volte, e amaramente la prima riflessione che viene da fare è che questa gente non vuole essere aiutata da nessuno e che preferisce vivere nella sua miseria, mentre l’altra riflessione è che esistono gruppi di mascalzoni che cercano di fare soldi chiedendo il riscatto, sulla pelle dei ragazzi, invece di aiutarli a crescere. Accanto a questi scarti d’umanità ne esistono molti altri, proprio in Italia, che invece, pensano di poter dire tutto quello che passa nel loro cervello bacato nascondendosi dietro la tastiera e lanciando infami accuse, del tipo, “la colpa è sua”, “è un’oca giuliva”, “se l’è cercata”, “ma perché non se ne stava a casa”, “chissà quanto ci costerà il riscatto” e altri nauseanti commenti che non è il caso di ripetere.

Ma in attesa degli sviluppi di questo caso, non possiamo fare a meno di ricordare l’anniversario del rapimento di un altro bambino, Giuseppe Di Matteo (in copertina, ndr), poi ucciso nel tentativo di far tacere suo padre Santino Di Matteo, collaboratore di giustizia ed ex-mafioso, e successivamente sciolto nell’acido. Il suo assassino Giovanni Brusca ha così dichiarato:

Ho ucciso io Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento.

Dopo il suo pentimento Giovanni Brusca ha ottenuto una serie di agevolazioni rispetto al carcere duro e continua a vivere tranquillamente. In Italia non esiste la pena di morte, ma nessuno si scandalizzerebbe se un uomo del genere fosse sciolto, vivo, nell’acido in cui ha sciolto il piccolo Di Matteo.

Giuseppe Di Matteo fu rapito il  23 novembre 1993, a 13 anni, in un maneggio di Piana degli Albanesi da un gruppo di mafiosi, su ordine di Giovanni Brusca, allora latitante e boss di San Giuseppe Jato. Il pentito Gaspare Spatuzza, che prese parte al rapimento, ha ricostruito il fatto dicendo che i sequestratori si travestirono da poliziotti della DIA ingannando il ragazzo, e promettendogli che lo conducevano a incontrare il padre, allora sotto protezione, lontano dalla Sicilia. Dice Spatuzza:

Agli occhi del ragazzo siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi. (…) Lui era felice, diceva “Papà mio, amore mio”.

Il ragazzo fu legato e lasciato nel cassone di un furgoncino, prima di essere consegnato ai suoi carcerieri. Per tutto il 1994 fu spostato in varie masserie e case disabitate del trapanese e dell’agrigentino e nell’estate 1995 fu rinchiuso in un vano sotto il pavimento in una sorta di casolare-bunker nelle campagne di San Giuseppe Jato, dove rimase per 180 giorni, fino alla sua uccisione. Brusca, dopo la condanna all’ergastolo per l’omicidio di Nino Salvo ordinò così l’uccisione del ragazzo, ormai fortemente dimagrito e indebolito, che venne strangolato e sciolto nell’acido l’11 gennaio 1996, poco prima di compiere 15 anni, dopo 25 mesi di prigionia. Con questo omicidio la mafia ha toccato il fondo della sua ferocia.

Oggi avremmo dovuto occuparci della situazione delle attrezzature sportive e delle politiche che non si occupano più da tempo di dare ai nostri ragazzi, tra i quali si nascondono anche piccoli campioni, la possibilità di allenarsi e praticare sport. Tante sono le cose che documentano questa situazione di abbandono, dal pallone tensiostatico, di cui sono rimasti solo alcuni brandelli, al campo sportivo ormai ridotto a una trazzera se non piove e a un acquitrino se piove. Ma ne parleremo più dettagliatamente domani.

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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