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12 dicembre: dalla strage allo sciopero

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Il 12 Dicembre 1969, alle ore 16.37, a Milano, nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana, scoppiò una bomba che uccise 17 persone (14 subito) e ne ferì altre 88.

Si trovò un’altra bomba inesplosa presso la Banca Commerciale Italiana di Milano, mentre a Roma, poco dopo, alle ore 16.55 esplose una terza bomba presso l’ingresso della Banca Nazionale del Lavoro, ferendo 13 persone. Sempre a Roma, poco dopo, alle ore 17.20 e 17.30,esplosero altre due bombe, una davanti all’Altare della Patria e l’altra all’entrata del Museo Centrale del Rinascimento, ferendo 4 persone. Iniziava così in Italia quella che venne definita “strategia della tensione” che, tra il 1968 e il 1974 provocò 140 attentati. Dopo controverse vicende, coloro che sono stati individuati come responsabili della “strage di stato” sono stati assolti, ma la matrice degli attentati va ricercata in alcuni gruppi eversivi che avevano l’obiettivo di instaurare un regime autoritario, attribuendo la responsabilità degli attentati all’estrema sinistra nata con le lotte del ’68. Quella ferita è ancora aperta. Quel giorno scoprimmo che esisteva gente disposta a sacrificare vittime innocenti per realizzare i propri perversi disegni. Scoprimmo che questa gente era annidata dentro le istituzioni e si copriva reciprocamente, scoprimmo che il fascismo in Italia non era mai morto e che difficilmente si sarebbe potuta trovare la verità su progetti così ben congegnati per distruggere la democrazia.

Sono passati 47 anni da quel tragico pomeriggio e viene da chiedersi se in Italia qualcosa è cambiato. Forse sì: allora i padroni che volevano fermare la fame di democrazia, dilagante dalle università alle fabbriche, coloro che volevano imporre il proprio disegno politico reazionario e autoritario, ricorrevano alle bombe e alla criminalizzazione delle persone e delle ideologie scomode o pericolose per loro. Adesso non ce n’è più bisogno. Allora nacque l’articolo 18, che difendeva il posto di lavoro dalle prepotenze dei padroni, adesso questo è stato abolito, perché i padroni hanno vinto su tutta linea davanti ai lavoratori costretti giornalmente a continui arretramenti nella difesa dei propri diritti. Allora c’era un minimo di sicurezza per potere guardare al futuro, per costruire qualcosa, una casa, una famiglia, per potere permettersi, anche a rate, alcuni lussi, la macchina, il televisore, la lavatrice, riservati alla grassa borghesia, per far continuare gli studi ai figli, adesso tutto questo è finito: davanti c’è il buio, l’incertezza, anzi la certezza di potere essere licenziati da un giorno all’altro, di trovarsi col culo a terra, di essere spostati verso altre lontane sedi, di andare “a quel paese”, in cui l’unica fonte di reddito ancora rimasta è la pensione dei nonni, mentre per chi ancora resiste, quella pensione è diventata un miraggio irraggiungibile. Gli spettri dell’immediato dopoguerra degli anni ’40, emigrazione, disoccupazione, impossibilità di far fronte ai problemi esistenziali indispensabili, come quello di nutrirsi, vestirsi e avere una casa, si ripresentano e, anno dopo anno, sono in aumento, mentre dall’altra faccia del pianeta c’è chi sbatte la sua ricchezza in faccia all’altra gente sopravvissuta, tra crociere, alberghi a 5 stelle, prime d’opera con abiti lussuosissimi, feste, serate di gala, ricche porzioni di droga. Una ricchezza costruita con la corruzione, con le mazzette, con il controllo capillare di tutte le risorse del territorio, con l’uso della violenza e del ricatto. Gente che magari si offende se i magistrati o i sociologi la chiamano mafia. E’ per questo che lo sciopero di oggi sembra essere l’ultima sponda, l’ultimo sussulto di due secoli di lotte iniziati con la rivoluzione industriale di inizio ottocento e conclusi con il ritorno del potere assoluto dei cosiddetti “padroni”. Qualcuno direbbe “un residuo ideologico”.

L’ultimo grido dei “dannati della terra”, davanti ai “signori” che si sono ripresi interamente tutto quello che erano stati costretti a cedere a causa delle lotte sociali e delle rivendicazioni per condizioni più umane di vita. Forse non c’è più neanche l’operaio, almeno non c’è più dalle nostre parti, mentre in altre parti del mondo, non solo in Cina, si trovano insopportabili situazioni di sfruttamento per realizzare prodotti a costi bassissimi, che hanno messo in crisi il capitalismo occidentale. Il progetto di ricomposizione delle strutture su cui si regge il sistema dell’economia mondiale procede inesorabile, a spese delle categorie, ma anche delle nazioni più deboli, al fine di agevolare la bella vita delle categorie, ma anche delle nazioni più forti. Ciò premesso la conclusione è inevitabile : siamo alla chiusura del cerchio, al compimento del progetto piduista di Licio Gelli, che ha trovato in Berlusconi la sua espressione più forte, ma che ha continuato a trovare seguaci e convinti esecutori nei suoi successori, Monti, Letta, Renzi. Un progetto iniziato a Piazza Fontana, portato avanti con “la strategia della tensione”, con l’impunità degli assassini stragisti, con la morte di tanti innocenti e adesso arricchito di ulteriori tasselli messi a posto usando idee e sigle di coloro che contro questo processo avrebbero dovuto battersi.

La mancanza di scrupoli spinge persino “il saggio” Napolitano, artefice dell’unità nazionale, delle “larghe intese”, ad accusare di “eversione” chi frappone qualche ostacolo, chi denuncia, chi si oppone alle storture del sistema, si chiamino essi Grillo, Salvini, Camusso, Landini. Quello che si chiede è una stabilità sociale che lasci le cose così come sono, camuffando di parole riformatrici l’occultamento dell’eterno progetto di travaso della ricchezza nelle tasche dei più ricchi, “la pace per far tutto quel che voi volete”, cantava Pietrangeli in “Contessa”. Forse l’esasperazione di chi non ci sta non è ancora arrivata al punto temuto da Napolitano, all’eversione, ma i sintomi che non se ne può più cominciano ad essere giornalmente più frequenti. E se dovessero diventare organizzazione e progetto politico, sarebbero una forza dirompente. Se po’ fa!!!!

(Articolo riadattato del 12 dicembre 2014)

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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