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12 dicembre 1969, strage di Piazza Fontana: una ferita sempre aperta

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Sono passati 53 anni dal 12 dicembre 1969, quando, alle ore 16,37, a Milano, nella sede della Banca Nazionale dell’agricoltura, in Piazza Fontana, scoppiò una bomba che uccise 17 persone (14 subito) e ne ferì altre 88.  Un’altra bomba inesplosa venne trovata  presso la Banca Commerciale Italiana di Milano, mentre a Roma, poco dopo, alle ore 16.55 esplose una terza bomba presso l’ingresso della Banca Nazionale del Lavoro, ferendo 13 persone. Sempre a Roma, poco dopo, alle ore 17.20 e 17.30, esplosero altre due bombe, una davanti all’Altare della Patria e l’altra all’entrata del Museo Centrale del Rinascimento, ferendo 4 persone. Iniziava così in Italia quella che venne definita “strategia della tensione” che, tra il 1968 e il 1974 provocò 140 attentati. Dopo controverse vicende, coloro che sono stati individuati come responsabili della “strage di stato” sono stati assolti, ma la matrice degli attentati va ricercata in alcuni gruppi eversivi neofascisti che avevano l’obiettivo di instaurare un regime autoritario, attribuendo la responsabilità degli attentati all’estrema sinistra nata con le lotte del ’68. Quella ferita è ancora aperta. Quel giorno scoprimmo che esisteva gente disposta a sacrificare vittime innocenti per realizzare i propri perversi disegni. Scoprimmo che questa gente era annidata dentro le istituzioni e si copriva reciprocamente, scoprimmo che il fascismo in Italia non era mai morto e che difficilmente si sarebbe potuta trovare la verità su progetti così ben congegnati per distruggere la democrazia.

A 53 anni  da quel tragico pomeriggio ci si chiede se in Italia qualcosa è cambiato. Forse sì: allora i padroni che volevano fermare la fame di democrazia, dilagante dalle università alle fabbriche, coloro che volevano imporre il proprio disegno politico reazionario e autoritario, ricorrevano alle bombe e alla criminalizzazione delle persone e delle ideologie scomode o pericolose per loro. Adesso non ce n’è più bisogno. Allora nacque l’articolo 18, che difendeva il posto di lavoro dalle prepotenze dei padroni, poi è stato abolito, perché i padroni hanno vinto su tutta linea davanti ai lavoratori costretti giornalmente a continui arretramenti nella difesa dei propri diritti. Allora c’era un minimo di sicurezza per potere guardare al futuro, per costruire qualcosa, una casa, una famiglia, per potere permettersi, anche a rate, alcuni lussi, la macchina, il televisore, la lavatrice, riservati alla grassa borghesia, per far continuare gli studi ai figli, adesso tutto questo è finito: davanti c’è il buio, l’incertezza, anzi la certezza di potere essere licenziati da un giorno all’altro, di trovarsi col culo a terra, di essere spostati verso altre lontane sedi, di andare “a quel paese”, in cui l’unica fonte di reddito ancora rimasta è la pensione dei nonni, mentre per chi ancora resiste, quella pensione è diventata un miraggio irraggiungibile. Altro discorso quello sul reddito di cittadinanza, che segna il confine tra la povertà assoluta e una vita in grado di poter soddisfare i bisogni più elementari. Gli spettri dell’immediato dopoguerra degli anni ’40, emigrazione, disoccupazione, impossibilità di far fronte ai problemi esistenziali indispensabili, come quello di nutrirsi, vestirsi e avere una casa, si ripresentano e, anno dopo anno, sono in aumento, mentre dall’altra faccia del pianeta c’è chi sbatte la sua ricchezza in faccia all’altra gente sopravvissuta, tra crociere, alberghi a 5 stelle, prime d’opera con abiti lussuosissimi, feste, serate di gala, ricche porzioni di droga. Una ricchezza costruita con la corruzione, con le mazzette, con il controllo capillare di tutte le risorse del territorio, con l’uso della violenza e del ricatto. Gente che magari si offende se i magistrati o i sociologi la chiamano mafia. Siamo vicini all’ultima  sponda, l’ultimo sussulto di due secoli di lotte iniziati con la rivoluzione industriale di inizio ottocento e conclusi con il ritorno del potere assoluto dei cosiddetti “padroni”. Qualcuno direbbe “un residuo ideologico”. L’ultimo grido dei “dannati della terra”, davanti ai “signori” che si sono ripresi interamente tutto quello che erano stati costretti a cedere a causa delle lotte sociali e delle rivendicazioni per condizioni più umane di vita. Forse non c’è più neanche l’operaio, almeno non c’è più dalle nostre parti, mentre in altre parti del mondo, non solo in Cina, si trovano insopportabili situazioni di sfruttamento per realizzare prodotti a costi bassissimi, che hanno messo in crisi il capitalismo occidentale. Il progetto di ricomposizione delle strutture su cui si regge il sistema dell’economia mondiale procede inesorabile, a spese delle categorie, ma anche delle nazioni più deboli, al fine di agevolare la bella vita delle categorie, ma anche delle nazioni più forti. Ciò premesso la conclusione è inevitabile : siamo alla chiusura del cerchio, al compimento del progetto piduista di Licio Gelli, che ha trovato in Berlusconi la sua espressione più forte, ma che ha continuato a trovare seguaci e convinti esecutori nei suoi successori, Monti, Letta, Renzi, Salvini e Meloni. Un progetto iniziato a Piazza Fontana, portato avanti con “la strategia della tensione”, con l’impunità degli assassini stragisti, con la morte di tanti innocenti e adesso arricchito di ulteriori tasselli messi a posto usando idee e sigle di coloro che contro questo processo avrebbero dovuto battersi. Rimane strisciante e sempre pronta a saltar fuori l’accusa di eversione contro qualsiasi forma di dissenso a tutela di una stabilità sociale che lasci le cose così come sono, camuffando di parole riformatrici l’occultamento dell’eterno progetto di travaso della ricchezza nelle tasche dei più ricchi, “la pace per far tutto quel che voi volete”, come cantava Pietrangeli in “Contessa”. Forse l’esasperazione di chi non ci sta non è ancora arrivata a questa eversione, ma i sintomi che non se ne può più cominciano ad essere giornalmente più frequenti. E se dovessero diventare organizzazione e progetto politico, sarebbero una forza dirompente. L’assurdo di tutto questo è che la manifestazione del dissenso in questo momento si riconosce in una destra becera e pronta a rassicurare tutto il padronato italiano con la conquista di consensi, per la quale, almeno sino a questo momento, non ha bisogno di ricorrere all’eversione neofascista con una nuova stagione di attentati terroristici.

A distanza di più di mezzo secolo mandanti ed esecutori sono in parte scomparsi, portando nella tomba i loro segreti, in parte sono fuggiti all’estero, in parte continuano la loro tranquilla vita all’interno di quelle istituzioni che sono sempre pronti a destabilizzare qualora si intravedesse il pericolo di “sterzate” troppo democratiche.

Si è parlato di fascismo strisciante, di oligarchia camuffata da democrazia, di democratura: nessuno s’illuda: l’attuale governance è l’alba, l’inizio di una transizione che si preannuncia come una deriva autoritaria con tutto il suo carico di  depistaggi informativi e propagande strumentali consumate sulla pelle dei soggetti più deboli, più ricattabili, più privi di qualsiasi elemento e strumento di reazione. E la strage di Piazza Fontana è il biglietto di visita, la minaccia di quel che ci aspetta se a qualcuno venisse la voglia di ostacolare questo disegno. E comunque, all’orizzonte, per il momento, non balugina nemmeno un segnale di seria opposizione.

Questo articolo, a parte alcuni aggiornamenti, è stato pubblicato su Antimafia Duemila il 12.12.2020

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Salvo Vitale

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

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