L’antimafia e l’anti-antimafia
Secondo una vecchia malattia del giornalismo, (ma anche della politica) italiano, basta prendere un frammento, un ritaglio, una parte di un discorso e farla diventare il tutto, pur di dimostrare di avere ragione. E così se in Sicilia ci sono mille mafiosi vuol dire che tutti i siciliani sono mafiosi, se uno ruba una mela è un ladro tanto quanto chi ruba un tir di mele, se in parlamento ci sono ladri vuol dire che tutti i parlamentari sono ladri, se c’è un magistrato corrotto vuol dire che tutti i magistrati sono corrotti, se c’è una legge sbagliata vuol dire che tutta la legislazione italiana fa schifo, ecc.
Un esempio di questo modo distorto di fare informazione e, in particolare, di fare informazione antimafia, lo si è visto in occasione della presentazione del libro di Alessandro Barbano “L’inganno” nella sala della Regina a Montecitorio. Barbano, che è vicedirettore del Corriere dello Sport, da tempo si occupa di studiare alcune disfunzioni nel campo della legislazione antimafia, con la chiara intenzione di puntare a modifiche legislative per rendere più efficace questa normativa. Tra le sue proposte c’è quella, già avanzata da Telejato sin dal 2014, di una completa rivisitazione della legge sulle misure di prevenzione, in particolare della normativa su sequestri e confische, che, dando al giudice la facoltà di procedere al di là delle norme e dei risultati dei processuali, consente aperte violazioni della Costituzione e al contempo non garantisce, in caso di restituzione dei beni, un risarcimento dovuto alla cattiva amministrazione giudiziaria. Il libro di Salvo Vitale “In nome dell’antimafia”, pubblicato nel 2021, aveva illustrato nei dettagli il circuito perverso, nel quale guazzano giudici, avvocati, imprenditori, economisti, consulenti e molta altra gente che oggi può essere considerata la nuova “razza padrona” della città, al punto da spremere soldi ai mafiosi per garantire loro prestazioni assolutorie o riduzioni di pene. Purtroppo, non possedendo le amicizie e i contatti per arrivare a Montecitorio o per poter dare adeguata visibilità alla sua inchiesta, il libro non ha avuto la visibilità che meritava ed è stato ignorato, proprio per le precise denunce e analisi in esso contenute, dalla grande stampa. L’analisi sulla legge La Torre e sulla sua spesso distorta applicazione illustra la nascita, l’ascesa e la caduta di quella che Caselli definì “la donna più potente di Palermo”, cioè Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio misure di prevenzione di Palermo, attraverso un lavoro di ricerca e documentazione di casi e personaggi vittime di un uso spregiudicato di una norma che, per sua definizione, dovrebbe prevenire l’espandersi della delinquenza mafiosa e che invece è diventata lo strumento per arricchire alcuni professionisti e per mortificare l’immagine di alcuni imprenditori siciliani poi risultati estranei al sodalizio mafioso.
Secondo la regola della parte per il tutto, dal libro di Barbano sono state espunte alcune frasi, e lo si è fatto diventare uno strumento di condanna dell’antimafia e dei suoi sostenitori, da don Ciotti a Gratteri, a Di Matteo, a Scarpinato, a Del Bene, a Tartaglia, a Morosini. Eventuali rilievi su quel minimo di soggettività inevitabile nel potere giudicante dei magistrati, sono diventati, nella chiave di lettura forzata dei “i talebani dell’antimafia” una condanna generalizzata di tutto il mondo dell’antimafia, cosa che non era nelle intenzioni dell’autore. In uno di questi articoli si legge che nel libro ci sono “falsità” sul processo “Trattativa Stato-Mafia”, definito dall’autore “fallimentare” nonostante la trattativa sia stata confermata anche nella sentenza di Appello”: cioè, per contestare una verità, spacciata per falsità, si risponde con una falsità spacciata per verità, poiché non è vero che “la sentenza è stata confermata in appello”, basti pensare alle assoluzioni di Subranni, Mori ed altri responsabili di vari depistaggi. E a questo punto diventano “nemici” dell’antimafia, e quindi “amici” dei mafiosi, oltre che l’autore, il vice presidente della Camera, Giorgio Mulè, il prof. Vittorio Manes, ordinario di Diritto Penale all’Università di Bologna, il Sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione Raffaele Piccirillo , che invece ha cercato di proporre un salto in avanti rispetto all’ “antimafia dogmatica”. Persino l’ex ministra Cartabia è stata inserita nel novero dei cattivi. Lo stimolo ad alcune riflessioni e la denuncia di alcune distorsioni sono diventati un assurdo “processo all’antimafia” e, per rendere più odiosi i relatori, sono stati tirati fuori tutti i nomi delle vittime di mafia, a partire dai bambini Giuseppe Di Matteo e Claudio Domino, alle stragi del ’92, e quindi a Falcone e a Borsellino, alle vittime della droga ecc., quasi che la condivisione di alcune parti del libro fosse dimostrazione di insensibilità verso il sangue dei martiri uccisi dai mafiosi. Persino l’arresto di Messina Denaro è diventato possibile grazie a un codice, riscritto da Salvini, che tutta l’Europa c’invidia e che nessuno deve permettersi di criticare. Anche la posizione personale dell’autore del libro, rispetto all’ergastolo ostativo, nella lettura dei “talebani dell’antimafia” diventa una nascosta volontà di vedere in libertà tutti i boss mafiosi. Si può ragionare così? Se vogliamo usare le parole di uno di questi giornalisti, ribaltandole su di lui, si tratta di “un … modo poco professionale di fare informazione”.
Il punto di vista della nostra emittente è che ai mafiosi individuati come tali vanno confiscate anche le mutande, che il 41 bis e l’ergastolo a vita è quello che si meritano, per aver distrutto la vita di tante famiglie. Sul sospetto e sulla presunzione di colpevolezza, che consentono di aggredire i patrimoni dei privati, bisogna andarci cauti: le numerose ordinanze di restituzione di quel che resta dei beni sequestrati sono un palese esempio di come ci si muove sulla base dell’arbitrio in una terra come la Sicilia, dove per essere imprenditori bisogna saper sopravvivere alle estorsioni mafiose e ai sospetti di chi fa le indagini e agli appetiti degli amministratori giudiziari. Il resto rischia di innestare una competizione del tipo “io sono più antimafioso di te e se tu non la pensi come me sei amico dei mafiosi”. E così non si va lontano.