Confermate in appello le pene per l’ex giudice Silvana Saguto e per i suoi complici

Potrebbe essere un’occasione perduta se non si riforma la legge sulle misure di prevenzione

0

Ieri

Era il 28 ottobre 2020 quando, nel processo di primo grado, dopo centinaia di udienze, di rinvii, di dichiarazioni eclatanti, di lunghe requisitorie, il tribunale di Caltanissetta emetteva la sua prima sentenza su quello che, riprendendo un’espressione che ho usato per primo a Telejato e che poi è stata ripresa da tutta la stampa, veniva definito “il cerchio magico” del giudice Silvana Saguto. Si trattava del presidente dell’ufficio misure di prevenzione, rimasta in carica dal 2010 al settembre 2015, allorché era scoppiata la bomba al palazzo di giustizia con l’invio, da parte della procura di Caltanissetta, alla Saguto e al suo sodale, l’avvocato Cappellano Seminara, di un avviso di garanzia in cui si contestavano i reati di corruzione, peculato, induzione alla concussione, abuso d’atti d’ufficio. L’inchiesta era partita da alcune dichiarazioni dell’ex prefetto dell’Anbcs Caruso, ma soprattutto da una sistematica campagna di denunce, da parte dell’emittente televisiva Telejato, del sistema giudiziario di prevenzione e della sua legge che consente ai giudici di potere emettere decreti di sequestro, di confisca dei beni, di limitazione della libertà personale, anche sulla base di semplici sospetti, in particolare per la mancata giustificazione di alcuni introiti o per l’appartenenza parentale a famiglie mafiose. Va precisato che una delle anomalie di questa legge è data dal fatto che le disposizioni di prevenzione possono essere portate avanti indipendentemente dai procedimenti penali nei riguardi dello stesso soggetto, anche se questo risulta definitivamente assolto. Giocando sull’ampio spettro d’azione e sullo smisurato potere offerto dalla legge, Silvana Saguto era riuscita a costruire attorno a sé una rete di amicizie, di rapporti fiduciari, di collegamenti con il mondo dell’imprenditoria, del giornalismo, del mondo accademico, con l’agenzia dei beni sequestrati e confiscati alle mafie, con numerosi altri colleghi magistrati, al vertice di importanti procure o all’interno di correnti strettamente legate al mondo della politica. Negli anni della sua gestione l’ufficio aveva visto un aumento verticale dei sequestri, affidati a pochi amministratori del “cerchio magico”, con parcelle gonfiate, spesso ben oltre i 500 mila euro per consulenze, alcune delle quali affidate dagli amministratori giudiziari al marito Lorenzo Caramma: si scoprivano delle allucinanti vicende, quali quelle di una truffa alle assicurazioni per 400 euro, quelle di una valigia con 20 mila euro che Cappellano avrebbe portato alla Saguto, in difficoltà economiche, quella di un debito al supermercato sotto casa di 18 mila euro, quella dell’uso degli uomini di scorta per commissionare acquisti personali, quella di frutta e addirittura di ventresca, finita sul tavolo della Saguto e proveniente da mercati o aziende da lei sequestrate, e infine la collaborazione di un rampante professore universitario che si era adoperato, in cambio di alcune nomine per l’amministrazione di beni sequestrati, a scrivere, lui dice a “consigliare”, la tesi al figlio della Saguto, Emanuele Caramma, poi laureatosi con buoni voti, grazie a questo appoggio. All’interno del sistema, a parte gli stretti contatti con alti magistrati come Pignatone, Lo Voi, Virga, Galoppi, Muntone, Ferri, non entrati nell’inchiesta, quasi tutti esponenti della corrente “Magistratura Indipendente”, c’erano diretti rapporti con tutto il mondo delle associazioni antimafia, da Libera ad Addio Pizzo, ad Antonello Montante.

In prima battuta il processo era durato tre anni, con l’escussione di un centinaio di testi, compresi anche alcuni titolari dei beni loro sequestrati e portati in fallimento, in un centinaio di udienze, di pesantissime richieste dei pm e con una sentenza che aveva sostanzialmente confermato l’impianto accusatorio: per Silvana Saguto condanna a otto anni e mezzo di carcere, per Francesca Cannizzo, ex prefetto di Palermo, condanna a tre anni; perr Lorenzo Caramma, marito della Saguto, sei anni e due mesi; per Gaetano Cappellano Seminara, sette anni e sei mesi; per Walter Virga, amministratore giudiziario, figlio del magistrato Tommaso, un anno e dieci mesi; per Roberto Santangelo, amministratore giudiziario, sei anni, 2 mesi e 10 giorni: per Rosolino Nasca, colonnello della G.d.F in servizio alla DIA di Palermo, quattro anni; per Carmelo Provenzano, ex-docente alla Kore di Enna, consulente privilegiato della Saguto, sei anni e dieci mesi; per Roberto Di Maria, docente alla Kore di Enna, preside della facoltà in cui si è laureato il figlio della Saguto, Emanuele, due anni, otto mesi e 20 giorni; per Maria Ingrao, moglie di Carmelo Provenzano, quattro anni e due mesi; per Calogera Manta, cognata di Provenzano, quattro anni e due mesi; per Emanuele Caramma, figlio della Saguto, sei mesi. Assolti Vittorio Saguto, padre dell’imputata, Aulo Gabriele Gigante, e il giudice Lorenzo Chiaramonte per il quale la Procura aveva chiesto una condanna a due anni e mezzo.

Oggi

Il 20.07.2022, a meno di due anni di distanza, dopo tre ore di camera di consiglio, letta dal presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta, Marco Sabella, è arrivata la sentenza d’appello, che ha in buona parte confermato, se non aggravato quanto deciso dalla sentenza di primo grado: Silvana Saguto ha avuto 8 anni 10 mesi e 15 giorni di reclusione; Cappellano Seminara, 7 anni e 7 mesi, sono stati confermati 6 anni e 2 mesi a Lorenzo Caramma, marito della giudice; per il figlio Emanuele Caramma 4 mesi invece dei sei del primo grado. Confermati i 3 anni, per l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo e sei anni e 10 mesi per l’ex professore dell’Università Kore di Enna Carmelo Provenzano; e ancora, 2 anni e 8 mesi per Rosolino Nasca, direttore della Dia di Palermo; sconto di pena, 4 anni e due mesi di reclusione, (invece di 6 anni e due mesi in primo grado), all’amministratore giudiziario Roberto Santangelo. Un anno e 4 mesi (in luogo di un anno e 10 mesi) per Walter Virga, due anni e otto mesi per Maria Ingrao e Calogera Manta, un anno e dieci mesi per il preside della facoltà di Giurisprudenza di Enna Roberto Di Maria. Anche stavolta l’impianto accusatorio della procura ha retto, confermando l’esistenza di quello che i pm Maurizio Bonaccorso e Claudia Pasciuti, avevano in primo grado definito un “sistema perverso e tentacolare”. Secondo i giudici gli imputati avevano posto in essere un patto “corruttivo permanente” creando “danni patrimoniali ingentissimi all’erario e alle amministrazioni giudiziarie”, e un “discredito gravissimo all’amministrazione della giustizia”.

Non abbiamo riportato al momento le pene pecuniarie, che sono rilevanti e che hanno reso la sequestratrice e i suoi complici, sequestrati nei loro beni e condannati a svariati milioni di euro di risarcimento. L’odierna sentenza, fra l’altro soffocata dalle vicende della crisi di governo, potrebbe essere l’occasione per una riconsiderazione di tutto il sistema della legislazione di prevenzione, così come, con molta probabilità, finirà con l’essere considerata come una diversione, a causa di una mela marcia, rispetto a un sistema che non ha alcuna voglia di rinnovarsi e di rinunciare, sotto l’ombrello della legge Rognoni-La Torre, all’enorme potere di cui i giudici dispongono. Ovvero un’occasione perduta.

Lascia una risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato.

Hide picture