Mazzarrà Sant’Andrea, una discarica nel mirino di tre procure

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Realizzata su un sito alluvionale a ridosso di un torrente, negli anni si è mangiata un’intera collina stravolgendo l’assetto del territorio – un tempo fiore all’occhiello dell’agricoltura locale – spazzando via uliveti, vivai e campi di rose per far posto a tonnellate di munnizza seppellita senza proteggere l’ambiente o lasciata scoperta per giorni.

Per quattordici anni un flusso ininterrotto di autocompattatori carichi dei rifiuti di mezza Sicilia ha intasato quotidianamente le strade da Barcellona a Falcone, nel messinese, diretto alla discarica di Mazzarrà Sant’Andrea, comune recentemente sciolto per infiltrazioni mafiose.

Una vena d’oro che ha rappresentato un’ingente fonte di guadagno per alcuni imprenditori venuti dal nord oltre che per capi bastone e gregari della locale cosca dei mazzarroti, una delle diramazioni della famiglia mafiosa dei barcellonesi.

Poi una mattina accade quello che, pur da tanti auspicato, nessuno avrebbe mai dato per certo. All’alba del 3 novembre 2014, gli autisti di quei compattatori si videro sbarrare l’accesso all’invaso dai carabinieri della compagnia di Barcellona Pozzo di Gotto e del Noe che stavano eseguendo il sequestro del megaimpianto della Tirrenoambiente, la società a capitale misto pubblico-privato che, dal 2002, lo gestiva.

Il dossier “Marino” sulle discariche

12966752_1766500840239522_51616928_nIl provvedimento era la conseguenza delle indagini avviate dalla Procura della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto su segnalazione della “Commissione ispettiva per la verifica degli atti relativi alle discariche private in esercizio per rifiuti non pericolosi site nel territorio siciliano”.

La Commissione – istituita nel gennaio 2014 dall’assessore regionale all’Energia e rifiuti, il magistrato Nicolò Marino – aveva il compito di effettuare verifiche sulle quattro discariche private (Tirrenoambiente, Oikos, Gruppo Catanzaro, Sicula trasporti) che in Sicilia hanno agito e ancora agiscono sostanzialmente in una situazione di monopolio nei diversi territori.

L’obiettivo era riscontrare eventuali violazioni sotto il profilo amministrativo in diversi aspetti: nel rilascio delle autorizzazioni; nella mancanza di un impianto di biostabilizzazione, che è un obbligo di legge dal 2003, nei volumi di rifiuti conferiti, nella congruità delle tariffe per tonnellata, particolare, quest’ultimo, che nessuno aveva mai verificato.

La situazione di Mazzarà apparve subito molto grave agli ispettori regionali: riscontrate importanti violazioni di tipo amministrativo e penale. Si era sbancato dove non si poteva, non erano state inviate alla Regione segnalazioni imminenti e doverose. Ancora più evidenti le violazioni sotto il profilo ambientale.

Il Dipartimento regionale ai rifiuti avvia quindi una procedura di revoca delle autorizzazioni, dispone la chiusura della discarica e trasmette i risultati all’autorità giudiziaria competente, Barcellona appunto, perché ritenuti meritevoli di una valutazione d’interesse penale.

Quella discarica è una bomba ecologica pronta ad esplodere?

L’indagine viene affidata ai sostituti Francesco Massara e Giorgio Nicola che ipotizzano tutta una serie di reati che vanno dagli imponenti lavori di sbancamento senza autorizzazione (concessione edilizia, nulla osta del Genio civile e della Soprintendenza) per la realizzazione di un nuovo modulo della discarica in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico, che ha trasformato “in modo irreversibile la morfologia dei luoghi”, all’illegittima coltivazione – di oltre un milione di metri cubi – in sopraelevazione della discarica, che ha comportato il concreto rischio di fenomeni franosi con rilevante pericolo per l’ambiente e per la incolumità delle persone. Il consulente della Procura, l’ingegnere Francesco Melidoro aveva rilevato che «Le acque sotterranee della discarica presentano notevoli indici di inquinamento, sulle pareti della discarica esistono situazioni di criticità correlate con fuoriuscita di percolato tali da generare locali profonde incisioni… e le condizioni precarie di equilibrio del corpo della discarica… potrebbero portare fenomeni gravitativi o franosi di rilevante pericolo per l’ambiente e per l’incolumità delle persone, i quali potrebbero manifestarsi in un breve medio periodo di tempo, in occasione soprattutto di intense precipitazioni atmosferiche».

Una nuova perizia esclude l’inquinamento delle falde

Nel dicembre 2015 viene depositata la relazione del perito Nicola Dell’Acqua, dirigente del dipartimento nazionale di protezione civile che, su nomina disposta dal Gip del tribunale di Barcellona, Danilo Maffa, ha eseguito l’incidente probatorio sul rischio inquinamento ed i difetti di progettazione e realizzazione.

Dell’Acqua doveva accertare le condizioni della discarica e in particolare avrebbe dovuto fornire riscontri sulle ipotesi investigative di rischio inquinamento dei pozzi della vicina contrada Lacco, che alimentano l’acquedotto del Comune di Furnari, il cui centro abitato dista poche centinaia di metri dall’immondezzaio, e del torrente Mazzarrà, a seguito dell’abbancamento di rifiuti, oltre il limite consentito e dei lavori di ampliamento, realizzati in difformità delle autorizzazioni.

Il perito, sottolineando che, «se non si interviene subito sulla stabilità della discarica si potrebbero causare gravi danni per l’ambiente» ha rilevato che nel sito di contrada Zuppà «ci sono stati allestimenti di discarica non autorizzati effettuati dal 2006 in poi, con gravi mancanze sia da parte della direzione lavori che dei collaudatori e non rilevati dagli enti di controllo», come Arpa, Provincia e Regione che negli anni non hanno vigilato come dovevano sulle attività della società Tirrenoambiente consentendo difformità nella realizzazione delle opere e un abbancamento eccessivo di rifiuti, mentre ha escluso che allo stato le acque superficiali del torrente Mazzarrà e dei pozzi idrici del comune di Furnari siti nelle immediate vicinanze, siano inquinati.

I progetti, consegnati nel 2007 dall’ingegner Roberto Campagna, “riportano gravi errori”. Infatti «i profili consegnati non sono idonei alle volumetrie richieste».

Omissioni che hanno portato – come rileva Dell’Acqua – «dal 2006 in poi nell’abbancamento dei rifiuti a non rispettare i profili progettuali», tanto che anche in questo caso sono state evidenziate le «gravi mancanze degli enti di controllo».

Altri difetti nell’esecuzione sono «la conformazione del fondo discarica e delle pareti» che risulterebbero «non conformi a quanto progettato, con colpe dei direttori dei lavori e dei collaudatori».

Rinviati a giudizio gli ex vertici di Tirrenoambiente

Escluso il disastro ambientale e l’inquinamento dei pozzi dell’acquedotto del Comune di Furnari, gli indagati da dieci scendono a cinque: Nello Giambò, professore universitario, ex sindaco di Mazzarrà Sant’Andrea ed ex presidente di Tirrenoambiente, il suoi successori, il farmacista Francesco Cannone, e Antonello Crisafulli; gli ex amministratori delegati, i piemontesi, Pino” Innocenti e Giuseppe Antonioli. Contestati solo i reati per illeciti edilizi, violazione del codice dei beni culturali essendo la zona sottoposta a vincoli paesaggistici e due imputazioni per violazione del codice dell’ambiente per l’eccessivo abbancamento di rifiuti e per aver gestito senza autorizzazione la discarica. Stralciata, perché destinata ad essere archiviata, la posizione dei cinque funzionari pubblici coinvolti nell’inchiesta: il dirigente regionale dell’assessorato al Territorio e ambiente, Vincenzo Sansone, il funzionario regionale Gianfranco Cannova, il funzionario dell’ufficio ambiente della Provincia regionale di Messina Armando Cappadonia e altri due funzionari del Settore ambiente della Provincia regionale di Messina, con competenze specifiche nel settore rifiuti di addetti al “controllo e smaltimento Rifiuti solidi urbani e Raccolta differenziata”, Salvatore Francesco D’Arrigo ed Eugenio Faraone ai quali si contestava il reato di falsità in atti pubblici commesso l’1 dicembre del 2006.

Mafia, tangenti e…

Ma questa non è la sola indagine che ha coinvolto la Tirrenoambiente. Nel 2008 venne coinvolta nei noti fatti di mafia del processo “Vivaio” la cui sentenza definitiva del 14 novembre 2015 confermando le condanne a otto anni per Nello Giambò e l’imprenditore Michele Rotella detto “u baruni” (recentemente morto in carcere, ndr) e quella a 7 anni e mezzo all’ex boss, oggi collaboratore, Melo Bisognano, artefici della realizzazione della megadiscarica, ha evidenziato gli interessi illeciti del clan dei mazzarroti nella sua gestione “non ufficiale”.

Nel luglio 2014 invece l’operazione “Terra mia” – condotta dalla procura di Palermo e dalla Dia di Agrigento – smaschera un giro di mazzette all’interno degli uffici regionali preposti al rilascio delle autorizzazioni. Il processo, iniziato il 12 gennaio 2015, vede imputati proprio il funzionario dell’assessorato regionale Territorio Ambiente Gianfranco Cannova, accusato di aver intascato mazzette in cambio di agevolazioni nel rilascio di autorizzazioni per lo smaltimento dei rifiuti, e Giuseppe Antonioli (Tirrenoambiente) insieme ad altri imprenditori della “munnizza”: Mimmo Proto (Oikos) e i fratelli Sodano (Soambiente). La Regione, nonostante la gravità delle accuse, è stata consigliata dall’avvocatura dello Stato di non costituirsi parte civile. Le mazzette «non sono un fattore di particolare allarme sociale» è il parere espresso dall’avvocatura. Cannova avrebbe intascato tangenti per facilitare le pratiche degli imprenditori. Bastava pagare per evitare i controlli nelle discariche e le possibili chiusure. Il prezzo della corruzione sarebbero stati migliaia di euro in contanti e altri “benefit”. Fatti talmente gravi da far respingere ai giudici la richiesta del funzionario infedele di patteggiamento a quattro anni di carcere.

Antonioli e Innocenti sono indagati inoltre dalla Procura di Vercelli per truffa aggravata in concorso. Nello stesso procedimento è indagato anche Bartolo Bruzzaniti, già condannato per spaccio di droga e appartenente alla cosca della ’ndrangheta Bruzzaniti-Morabito-Palamara. Il reato riguarderebbe una transazione tra la Tirrenoambiente e la Osmon, per un importo di 2.604.000 euro, a favore di quest’ultima. La Osmon controlla la Osmon Africa, con sede in Costa d’Avorio, che si occupa di produzione e commercio di olio di palma da usare come combustibile per la centrale di Borgo Vercelli, gestita dalla prima. La Osmon Africa avrebbe erogato compensi alla Green Oil Energy, nella quale risulterebbe legale rappresentante Bruzzaniti.

L’8 settembre 2015 l’operazione “Riciclo” della Guardia di Finanza scoperchia un calderone fatto di contributi e sponsorizzazioni a parrocchie e società sportive, di un sindaco amante del lusso che ha anche raggirato un anziano sacerdote che non si oppone all’allegra gestione della sua partecipata in cambio di risarcimenti economici personali; di imprenditori calati dal nord per lucrare sul grande business dei rifiuti siciliani. La maxi-inchiesta ha messo in scena i protagonisti della truffa col risultato che non era solo la mafia a “mangiare” con i rifiuti.

Coinvolti l’ex sindaco di Mazzarrà, Salvatore Bucolo, e tutti gli ex amministratori delegati della Tirrenoambiente Innocenti, Giuseppe Antonioli, Lorenzo Piccioni, ex senatore forzista e membro della commissione ecomafie. Per loro l’accusa, secondo quanto riportato dall’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip del Tribunale barcellonese, è di peculato e corruzione.

Innocenti, Antonioli, Piccioni e Crisafulli dovranno comparire il prossimo 24 maggio davanti al Gup del Tribunale di Vercelli. Contestato, ai quattro, dalla procura vercellese il reato di abuso d’ufficio per aver posto «in essere – in concorso tra loro – condotte finalizzate alla sottoscrizione, in data 14 gennaio 2013, del contratto di smaltimento di percolato e al mantenimento dell’efficacia del medesimo affidamento, alla Osmon spa di Borgo Vercelli» senza far ricorso ad una gara d’appalto pubblica, come imponeva lo status di società mista a prevalente capitale pubblico della Tirrenoambiente, provocando così “un ingente vantaggio patrimoniale alla Osmon pari ad 1 milione e 455 mila euro”.

La gestione di Tirrenoambiente finita anche sotto la lente dell’Anac

La pratica di appaltare incarichi in via diretta è finita anche nel mirino dell’Autorità nazionale anti corruzione di Raffaele cantone, che ha inviato le sue conclusioni alle Procure della Repubblica di Vercelli e Messina. Dopo le quattro richieste di rinvio a giudizio per abuso d’ufficio aggravato, nel febbraio di quest’anno, parte anche questo nuovo filone.

Secondo quanto accertato la condotta tenuta dagli ex amministratori di tirrenoambiente procurava un ingente vantaggio patrimoniale all’impresa vercellese pari a 1 milione e 455 mila euro, cifra risultante dalla differenza tra il costo sostenuto dall’impresa per il servizio di smaltimento del percolato prodotto dalla discarica e quanto incassato dalla medesima nei confronti della partecipata del comune di Mazzarrà Sant’Andrea.

Alla Osmon, che aveva significativi intrecci societari con Tirrenoambiente, è stata contestata l’indeducibilità dei costi direttamente sostenuti dalla medesima per la realizzazione del reato di abuso d’ufficio aggravato, pari a 4,5 milioni di euro.

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[team title=”Carmelo Catania” subtitle=”” url=”” image=”https://www.telejato.it/wp-content/uploads/2016/04/12524137_1765092403713699_8598405507659058218_n.jpg”]Nato a Milazzo (Me) quarantaquattro anni fa, scrittore, blogger e giornalista (abusivo, non avendo potuto iscriversi all’ordine pur avendo svolto i necessari due anni di praticantato). Collabora con I Siciliani giovani, Casablanca-Le Siciliane, Agoravox e Messina Ora. Ha pubblicato il volume La collina della munnizza (2012) che racconta le vicende criminali di una delle più grandi discariche del Mezzogiorno, quella di Mazzarrà Sant’Andrea nel messinese. Referente per la provincia di Messina dell’Associazione Antimafie Rita Atria. Nel 2012 gli è stato assegnato il Premio per la legalità Adolfo Parmaliana.[/team]

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